Come i media italiani hanno trasformato il coronavirus in un virality show

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In Italia si sono registrati i primi due casi di persone infette. Tra video esclusivi dei malati, titoloni allarmistici e dirette 24 ore su 24, i media hanno dato vita a una spettacolarizzazione del terrore

Che il coronavirus sia un’emergenza sanitaria globale, lo ha detto anche l’Organizzazione mondiale della sanità. A oggi i morti per l’epidemia sono oltre 200, i contagi viaggiano verso i 10mila e aumentano giorno dopo giorno. Anche in Italia si sono registrate le prime due persone contagiate in un hotel romano e il governo ha deciso di fermare i voli da e per la Cina. In questa situazione di profonda incertezza, dal momento che la conoscenza del fenomeno è ancora limitata, gran parte dei media italiani stanno offrendo una narrazione tossica di quanto sta avvenendo. L’allarmismo si è subito trasformato in spettacolarizzazione e sensazionalizzazione, come avviene troppo spesso davanti a situazioni di questo tipo.

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Sulle edizioni locali dei quotidiani nazionali, così come sui giornali locali, si fa a gara di titoloni a chi ha più casi sospetti nei propri ospedali provinciali, per poi nascondere tra le righe in fondo il fatto che si trattasse di un falso allarme. Ne è un esempio questo articolo tenuto per un giorno in apertura sul sito de La Provincia di Como. “Allarme Coronavirus al Sant’Anna”, il titolone, seguito dal racconto di una famiglia in arrivo dalla Cina e sottoposta a controlli per una situazione sospetta. “I test hanno dato esito per fortuna negativo”, si legge – irrilevante – nell’ultima riga del pezzo. Un’informazione di questo tipo ha caratterizzato più o meno tutta l’ultima settimana mediatica italiana, con allarmi rimbalzati da un capo all’altro del paese e poi rivelatisi infondati, quando ormai il panico sociale era già stato creato. In parallelo, si sono moltiplicate le gallerie di foto raffiguranti cittadini cinesi morti per strada a Wuhan e altrove, con la solita indicazione “si consiglia la visione a un pubblico adulto e consapevole”.

Alla fine comunque l’allarme si è concretizzato anche in Italia. Trattasi di due turisti cinesi atterrati a Malpensa qualche giorno fa e poi trasferitisi a Roma, dove ora si trovano ricoverati presso l’Istituto Nazionale Malattie Infettive Spallanzani. “Virus, colpita l’Italia”, l’apertura di oggi di Repubblica, “Il morbo è a Roma”, il titolone de Il Resto del Carlino, “Virus paralizzante”, la prima pagine di Avvenire. In tv si sono moltiplicate le troupe televisive nei pressi dell’hotel prima e dell’ospedale poi dove si trovano i due cittadini cinesi, in una sorta di telecronaca in tempo reale dell’epidemia. Il giornale di Enrico Mentana, Open, ha invece diffuso quello che ha definito uno scoop: un video dove si vedono le due persone contagiate nell’ambulanza, senza alcuna censura del loro volto. Esseri umani buttate in pasto alla psicosi collettiva, come se vederne il volto potesse servire a qualcosa, fosse un passaggio fondamentale nel diritto di cronaca. Non è così.

In tutta questa situazione, il fatto che il direttore scientifico dell’ospedale, Giuseppe Ippolito, abbia detto in una conferenza stampa che i due cittadini cinesi contagiati a Roma stanno bene e che la rapidità dell’intervento faccia pensare che non ci siano altre persone contagiate – la vera notizia, quella che dovrebbe tranquillizzare – è passato in secondo piano, fuori dai titoloni di apertura, dalle anteprime degli articoli e dai “video esclusivi”. Il panico, d’altronde, fa più notizia delle rassicurazioni.

Sono bastati pochi giorni per trasformare il coronavirus in un ottimo pretesto commerciale. Il clickbaiting mediatico da una parte, in un mondo dell’editoria sempre più in crisi e che ha venduto la propria dignità per qualche accesso in più. La strumentalizzazione politica a fini propagandistici dall’altra, con i vari Matteo Salvini e Giorgia Meloni che hanno subito declinato la questione del coronavirus in un’ottica frontaliera, aggiungendo al jingle dei porti chiusi quello degli aeroporti chiusi e puntando il dito contro un governo reo di non aver isolato l’Italia dal resto del mondo in tempo.

Se le speranze di una dialettica politica sana sono ormai da tempo state tradite, quanto meno dal giornalismo ci si aspetterebbe che adempiesse al suo compito, fare informazione. Che è ben diverso dal creare allarmismi sotto forma di spettacolarizzazione delle notizie. L’articolo 7 della Carta di Perugia, d’altronde, sottolinea che è impegno comune la non diffusione di informazioni che possano provocare allarmismi, turbative ed ogni possibile distorsione della verità.

L’epidemia globale c’è, l’allarme è reale, ma il modo in cui viene raccontato è sbagliato. La fuga degli italiani dai ristoranti cinesi, l’incremento di episodi razzisti verso cittadini della terra del Dragone, sono effetto della psicosi causata, anche, dalla sensazionalizzazione mediatica. È paradossale che chi oggi sta facendo la migliore informazione sul tema coronavirus si trovi su Instagram, piuttosto che su un quotidiano o in tv. Trattasi ad esempio di Roberta Villa, giornalista e medico, che con una serie di stories cerca di andare oltre alla narrazione paranoica dei media mainstream. In una di queste, ad esempio, sottolinea che la dichiarazione dell’Oms sull’emergenza globale non è sinonimo di catastrofe, ma serve più che altro ad attivare una serie di conseguenze, gli accordi tra stati, senza comportare misure restrittive su viaggi e commerci. Peraltro, non è un evento così raro: dal 2009 a oggi è già successo altre cinque volte.

Narrare il coronavirus sminuendolo è sbagliato, certamente. Raccontarlo amplificando la sua portata attuale e declinando in chiave ultra-allarmistica ogni notizia, lo è ugualmente. Le foto delle persone infette, i corpi stesi nelle città cinesi, le dirette fuori dagli ospedali non aggiungono nulla al racconto. Piuttosto, lo trasformano in una sorta di reality show quotidiano. Tutto questo operare in chiave clickbaiting e audience non salverà il giornalismo dalla crisi che sta vivendo, al contrario non farò altro che accentuarla.