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Cartelli con i nomi dei candidati democratici alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti a Des Moines, Iowa, il 30 gennaio 2020. (Al Drago, Bloomberg via Getty Images)

Chi sfiderà Trump? Guida alle incerte primarie democratiche - Alessio Marchionna

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Chi sfiderà Trump? Guida alle incerte primarie democratiche

Il 3 febbraio cominciano in Iowa le primarie del Partito democratico statunitense per scegliere il candidato che sfiderà Donald Trump alle elezioni presidenziali del 3 novembre. Nell’arco di quasi cinque mesi voteranno tutti i cinquanta stati (e anche i territori dipendenti, come le Samoe Americane e Puerto Rico). Ogni stato mette in palio un certo numero di delegati, assegnati ai candidati in base ai voti ottenuti alle urne. I delegati totali sono 3.979. Vince la nomination il candidato che ne ottiene la metà più uno, cioè 1.990. L’investitura ufficiale del candidato avverrà durante la convention del partito, che si terrà a Milwaukee, in Wisconsin, tra il 13 e il 16 luglio 2020.

Saranno mesi intensi e segnati dall’incertezza. Le primarie dei partiti politici statunitensi sono di per sé dei processi lunghi, perché sono concepite in modo che alla fine venga selezionato un candidato forte a livello nazionale, capace di competere in stati con caratteristiche politiche e demografiche diverse, di reggere gli immancabili urti di una campagna elettorale presidenziale e di raccogliere fondi e finanziamenti nel lungo periodo. Le primarie democratiche sono generalmente più lunghe di quelle repubblicane, perché in quasi tutti gli stati i delegati sono assegnati su base proporzionale, quindi anche i candidati meno forti possono conquistare dei delegati e restare in corsa a lungo anche se hanno poche possibilità di ottenere la nomination. E le primarie democratiche del 2020 potrebbero essere ancora più lunghe e incerte del solito. Questo perché, a quattro anni dalla battaglia tra Hillary Clinton e Bernie Sanders, e dalla dolorosa sconfitta di Clinton contro Donald Trump, il partito e il suo elettorato stanno ancora cercando di capire in che direzione andare.

Le elezioni di metà mandato del novembre 2018, in cui i democratici hanno ripreso il controllo della camera, hanno mandato segnali contrastanti: se è vero che un numero senza precedenti di rappresentanti giovani e radicali – come Alexandria Ocasio-Cortez e Ilhan Omar – è entrato al congresso, la vittoria democratica è stata dovuta anche agli ottimi risultati dei candidati moderati nei sobborghi ai margini di grandi città in zone tradizionalmente conservatrici (come l’Oklahoma). Queste dinamiche hanno alimentato un’incertezza sull’identità del partito che ha finito per condizionare anche la corsa alle primarie per le presidenziali: il campo dei pretendenti si è allargato come non era mai successo nella storia recente (fino a pochi mesi fa i candidati erano più di venti), portando nella competizione figure poco convenzionali, tra cui un miliardario, un gestore di hedge fund e il sindaco di una piccola città dell’Indiana. Con il passare del tempo la rosa si è ristretta, ma al momento ci sono almeno quattro candidati con buone argomentazioni per sostenere di essere la persona di cui il partito ha bisogno. Nessuno di loro, però, sembra la risposta convincente alla domanda che in molti si fanno negli Stati Uniti e nel resto del mondo: chi può battere Trump?

Prima di passare in rassegna i punti di forza e di debolezza dei candidati favoriti, e i temi su cui presumibilmente si decideranno le primarie, qualche altra informazione utile sul loro funzionamento.

La spinta dell’Iowa
Nella maggior parte degli stati le primarie si svolgono attraverso elezioni classiche, in cui gli elettori vanno al seggio ed esprimono segretamente la loro preferenza. Ma in una manciata di stati si usa un metodo diverso, i cosiddetti caucus. È il caso dell’Iowa, lo stato che tradizionalmente dà inizio alle primarie. Si tratta di riunioni in cui gli elettori si incontrano in palestre, scuole o biblioteche ed esprimono pubblicamente il loro sostegno per uno dei candidati. I candidati che nella prima votazione rimangono sotto una certa soglia di consensi (in Iowa il 15 per cento) sono eliminati dalla competizione. A quel punto comincia una serie di dibattiti e trattative – tra persone che nella maggior parte dei casi sono amici, parenti e conoscenti, soprattutto nei piccoli centri – in cui i sostenitori dei candidati ancora in corsa cercano di convincere quelli dei candidati eliminati e degli altri in gioco a passare dalla loro parte. Poi si vota di nuovo per avere il risultato definitivo del caucus; vengono sommati i voti di tutti i caucus dello stato e in base a al dato finale sono calcolati matematicamente i delegati ottenuti da ogni candidato.

Il caucus si svolge in un giorno lavorativo e può durare diverse ore, quindi tende a favorire i candidati che hanno una base di sostenitori entusiasti e attivi sul territorio. Questa formula è criticata da chi la considera antidemocratica perché tende a ridurre la partecipazione politica. Altri la difendono sostenendo che consente ai cittadini di portare avanti in maniera efficace le loro istanze e le loro preoccupazioni. Sta di fatto che il caucus dell’Iowa è un momento storicamente fondamentale: può dare nuovo slancio a un candidato in difficoltà, affossare la candidatura di quello favorito o perfino catapultare in cima alla lista dei favoriti un candidato che fino a quel momento non era preso sul serio. Nel 2008 l’Iowa segnò la svolta per la campagna elettorale di Barack Obama, che vincendo in quello stato a maggioranza bianca e moderato dimostrò di poter attirare elettori di estrazioni diverse e di poter essere competitivo su scala nazionale; quattro anni prima una sconfitta in Iowa fece collassare la candidatura di Howard Dean, arrivato favorito a quell’appuntamento, e aprì la strada alla vittoria alle primarie di John Kerry, poi sconfitto da George W. Bush. Qui una guida chiara e completa ai caucus dell’Iowa..

L’Iowa è importante soprattutto se preso in coppia con il New Hampshire, il secondo stato a votare (l’11 febbraio). Dal 1980 in poi, in tutte le primarie (tranne una) sia i repubblicani sia i democratici hanno assegnato la candidatura alle presidenziali a chi ha vinto le primarie in Iowa, in New Hampshire o in entrambi gli stati. Inoltre, dal 2000 tutti i democratici che hanno vinto in Iowa hanno poi conquistato la nomination. Varie analisi hanno dimostrato che l’esito del caucus in questo stato condiziona anche l’orientamento degli elettori in altri stati, soprattutto nelle primarie dove ci sono molti candidati in corsa ma nessuno apparentemente dominante, come è il caso di quelle attuali.

Le sorprese politiche degli ultimi anni consigliano di non prendere per oro colato i precedenti

È per questi motivi che tutti i candidati hanno cominciato a trascorrere molto tempo in Iowa già nella prima parte del 2019 e hanno speso decine di milioni di dollari per comprare spazi pubblicitari sui mezzi d’informazione locali e per reclutare volontari, cercando di portare dalla loro parte quei segmenti di elettori che nei caucus possono trainare consensi. Il 29 gennaio 2020 il Washington Post ha pubblicato un articolo in cui racconta gli sforzi di Joe Biden per conquistare il sostegno della comunità di suore cattoliche di Dubuque – una città nel nordest dello stato dove più della metà degli abitanti si dichiara cattolico – che in passato hanno avuto un ruolo decisivo nei caucus locali.

Detto questo, le sorprese politiche degli ultimi anni, negli Stati Uniti e non solo, consigliano di non prendere per oro colato i precedenti. Diversi commentatori sostengono che quest’anno i caucus dell’Iowa potrebbero consegnare risultati meno decisivi rispetto al passato. I sondaggi indicano che per la prima volta quattro candidati – Elizabeth Warren, Pete Buttigieg (Boot-edge-edge), Joe Biden e Bernie Sanders – potrebbero superare la soglia del 15 per cento dei voti che bisogna raggiungere per conquistare dei delegati. Un risultato del genere sarebbe un’indicazione ulteriore della frammentazione identitaria e politica del Partito democratico, e farebbe aumentare la probabilità che le primarie restino in bilico fino alla fine, arrivando alla convention di luglio senza che uno dei candidati abbia raggiunto la maggioranza dei delegati necessari per ottenere il mandato del partito. In quel casi si aprirebbero scenari complessi e difficili da prevedere, in cui ogni candidato cercherebbe di ottenere il sostegno dei delegati degli altri pretendenti.

Una sfida a quattro
Nonostante le incertezze, si può azzardare una previsione: sarebbe molto sorprendente se nessuno dei quattro candidati appena menzionati arrivasse a sfidare Trump a novembre. La questione è chi tra loro riuscirà a unire le varie anime del Partito democratico.

Nel 2008 e nel 2012 Barack Obama vinse le presidenziali costruendo una coalizione politica molto variegata, che comprendeva i neri, gli ispanici, i giovani, le donne con un alto livello di istruzione, la maggioranza degli abitanti delle grandi città e circa il 40 per cento degli elettori delle zone rurali negli stati del midwest, come Michigan, Wisconsin e Minnesota.

Nel 2016 una buona parte di quel 40 per cento ha votato per Donald Trump, mentre tanti giovani ed elettori delle minoranze hanno disertato le urne. Tutti i candidati democratici favoriti alle primarie del 2020 hanno pregi e punti di forza per convincere alcuni di quei segmenti elettorali, ma al momento nessuno ha mostrato l’abilità politica (e neanche la volontà) che servirebbe per tenerli tutti insieme.

Joe Biden, non così rassicurante
Vicepresidente sotto il mandato di Barack Obama, in teoria Joe Biden dovrebbe essere il candidato in grado di sfruttare meglio l’incertezza e la frammentazione dell’elettorato di sinistra. Ha dalla sua il sostegno – apparentemente molto solido – dei neri, che è determinante nelle primarie democratiche. Conosce a fondo gli abitanti del midwest, impoveriti dalla crisi economica, ed è probabilmente il candidato che ha maggiori possibilità di riportare verso il Partito democratico gli elettori di Obama che nel 2016 hanno votato per Trump, soprattutto in stati decisivi come Wisconsin e Michigan. Biden è il preferito tra gli elettori senza una laurea, che costituiscono due terzi dell’elettorato democratico. Non piace ai giovani, ma ha dalla sua parte molti degli elettori più anziani, quelli che i mezzi d’informazione tendono a ignorare, ma che generalmente vanno a votare più dei giovani.

Il problema di Biden è che non sembra avere un messaggio veramente convincente. In un momento di trasformazioni ideologiche e culturali veloci e traumatiche, l’ex vicepresidente si propone come il candidato che può riportare gli Stati Uniti agli anni precedenti all’incubo Trump, facendo appello ai valori di una volta, come l’etica del lavoro, la solidarietà, il buon senso. Il suo principale punto di forza, a detta della sua campagna elettorale, è che Biden ha più probabilità di chiunque altro di sconfiggere Trump alle urne. È lo stesso argomento usato da Hillary Clinton nella sfida con Bernie Sanders nel 2016, e non andò a finire bene. Biden non è il candidato più anziano (ha 77 anni, uno in meno di Sanders), ma è quello che più di tutti mostra i segni dell’età. Rispetto al 2008 e al 2012 sembra spesso in difficoltà nel gestire una campagna elettorale nazionale, le sue performance nei dibattiti sono state a tratti inquietanti, ogni tanto mostra preoccupanti segni di insofferenza. Qualche giorno fa in Iowa un elettore ha messo in discussione le sue posizioni sul cambiamento climatico, e lui gli ha risposto di “votare per qualcun altro”.

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Durante un comizio elettorale di Joe Biden a Waukee, Iowa, il 30 gennaio 2020. (Daniel Acker, Bloomberg via Getty Images)

Infine, la sua lunga carriera politica potrebbe rivelarsi una zavorra. Il sostegno all’invasione dell’Iraq; il modo in cui nel 1992, da presidente della commissione giustizia del senato, gestì la testimonianza di Anita Hill, una donna che accusava Clarence Thomas, futuro giudice della corte suprema, di averla molestata; la decisione di appoggiare i tagli allo stato sociale. Sono questioni che rimandano a temi – il #MeToo, il pacifismo, la sanità per tutti – molto sentiti oggi da una parte degli elettori democratici, e Biden si troverà attaccato da tutti i candidati su questi fronti.

Per quanto riguarda la strategia, il suo obiettivo è piazzarsi in buona posizione in Iowa e in New Hampshire e poi aspettare i voti del Nevada (22 febbraio), della South Carolina (29 febbraio) e il super martedì del 3 marzo, quando andranno alle urne segmenti dell’elettorato democratico che per ora sono dalla sua parte (in particolare i neri).

Bernie Sanders, il socialista ostinato
È il candidato più anziano e ha avuto un infarto appena quattro mesi fa, eppure sembra quello più energico e in grado di trasmettere entusiasmo. Quattro anni fa, quando sfidò Hillary Clinton, era sconosciuto in gran parte del paese. Oggi non ha questo problema e in più ha conservato il sostegno costruito all’epoca. Non è cambiata, inoltre, la sua capacità di raccogliere fondi per la campagna elettorale (finora è il candidato che ha messo da parte più soldi). Il suo messaggio radicale non è più fresco e originale come nel 2016, perché molte delle sue proposte su sanità, immigrazione, economia e regolamentazione della finanza sono state fatte proprie anche da altri candidati (in particolare dalla senatrice Elizabeth Warren), ma Sanders sembra essere ancora il politico più forte della sinistra radicale. È di gran lunga il candidato preferito dai giovani in tutto il paese e ha le carte in regola per convincere gli elettori con un basso livello di istruzione negli stati del midwest. Questi elettori apprezzano il fatto che Sanders non abbia cambiato idee politiche in tutti i suoi cinquant’anni di carriera, perché vuol dire che resterà fedele a quelle idee anche una volta eletto. Inoltre il fatto di essere tuttora un indipendente e di essere sempre stato una spina nel fianco del Partito democratico gli ha permesso di conquistare i consensi di persone che solitamente non partecipano al processo politico.

Questa solidità ideologica spiega perché la base di sostegno di Sanders è impenetrabile agli altri candidati, ma è anche il motivo per cui il senatore fa ancora molto fatica ad attirare elettori di segmenti diversi (come le minoranze e le persone con un livello di istruzione più alto). Il suo messaggio politico sembra ripetitivo e monolitico, difficilmente adattabile a fasce dell’elettorato diverse da quelle per cui è stato concepito. Sanders spera che questa situazione cambi con l’inizio delle primarie. Se i sondaggi si riveleranno corretti e Sanders dovesse vincere in Iowa e in New Hampshire, la sua candidatura sembrerebbe molto più credibile a livello nazionale e aumenterebbe ulteriormente la sua capacità di raccogliere donazioni, creando un circolo virtuoso che per gli avversari sarebbe difficile da rompere. Nelle ultime settimane la crescita del senatore del Vermont ha creato una certa ansia tra i dirigenti del partito e tra molti commentatori di sinistra, convinti che per battere Trump la sinistra dovrebbe puntare su un messaggio politico meno divisivo. Nel giro di pochi giorni ha litigato con Warren e con Biden ed è stato ferocemente preso di mira da Hillary Clinton. Il 31 gennaio si è saputo che alcuni democratici potrebbero cercare di modificare in corsa le regole della convention per rendere più difficile la nomination di Sanders.

Elizabeth Warren, un ponte tra le due anime del partito?
La senatrice è uno dei volti nuovi di questa campagna elettorale, e per certi versi sembra la persona giusta per unire il partito facendo da ponte tra la sinistra di Sanders e quella più moderata che fa capo alla classe dirigente del Partito democratico. La sua forza è stata spiegata bene da Michael Tomasky in un articolo pubblicato su Internazionale il 31 gennaio 2020: “Credo che Warren piaccia a molte persone perché è totalmente priva della cautela tipica degli esponenti del suo partito. Da più di 35 anni i democratici sono attenti a non essere né troppo questo né troppo quello: troppo progressisti, troppo aggressivi, troppo arrabbiati per le ‘malefatte di grande ricchezza’, per usare la famosa espressione di Teddy Roosevelt, presidente all’inizio del novecento. Warren è decisamente incauta nel descrivere e denunciare la perversa forma di capitalismo in cui gli statunitensi vivono da quarant’anni”. Allo stesso tempo, a differenza di Sanders, Warren non mette in discussione né il sistema economico nel suo complesso – si definisce una “capitalista fino al midollo” – né la classe dirigente del Partito democratico.

Questi elementi, insieme a un paio di buone prestazioni nei dibattiti e ai problemi di salute di Sanders, l’hanno catapultata dopo l’estate del 2019 in cima alla lista dei favoriti. A un certo punto sembrava che quest’ascesa fosse inarrestabile e qualcuno ipotizzava che Sanders potesse farsi da parte per sostenere Warren come candidata unica della sinistra radicale. È successo l’esatto contrario: da novembre in poi la senatrice del Massachusetts ha cominciato a perdere consensi tra gli elettori bianchi moderati – soprattutto a vantaggio di Pete Buttigieg – e sembra faticare parecchio a intaccare il vantaggio di Sanders tra gli elettori con un basso livello di istruzione. Finora ha puntato quasi tutto sulla sanità, senza dubbio il tema centrale delle primarie democratiche nei prossimi mesi: nel novembre 2019 ha presentato il suo piano per introdurre negli Stati Uniti un sistema sanitario universale e pubblico simile a quello di molti paesi europei; per rassicurare l’elettorato moderato ha promesso che il suo sistema, che secondo le stime costerebbe circa ventimila miliardi di dollari, non farebbe aumentare le tasse per la classe media, ma sarebbe finanziato dalla lotta all’evasione, da nuove tasse sui redditi e sui patrimoni dell’1 per cento più ricco della popolazione e imposte sulle transazioni finanziarie. La sua mossa non sembra aver convinto, e alla lunga Warren rischia di pagare il fatto di aver impostato tutta la sua campagna su una proposta politica molto difficile da realizzare.

Lontana dal riuscire a fare una sintesi politica della sinistra americana, oggi Warren sembra più che altro schiacciata tra le due anime del partito, vulnerabile sia agli attacchi di Sanders sia a quelli dei candidati moderati Pete Buttigieg e Joe Biden. Attualmente i suoi indici di gradimento sono molto alti soprattutto tra le donne con un alto livello d’istruzione, una categoria che difficilmente può portarla a fare un buon risultato alle primarie in Iowa e in New Hampshire. Secondo i sondaggi Warren è al quarto posto in entrambi gli stati. Se dovesse partire con un risultato del genere avrebbe bisogno presto di una svolta per risollevare la sua campagna elettorale.

Pete Buttigieg, l’unicorno della politica americana
È un ex ufficiale della marina, è gay, è cristiano, ha 38 anni, parla sette lingue (norvegese, arabo, spagnolo, maltese, dari, francese e italiano), si è laureato ad Harvard e a Oxford, ha studiato Gramsci e ha lavorato per una multinazionale delle consulenze. Pete Buttigieg è il tipo di creatura politica che solo negli Stati Uniti potrebbe passare nel giro di pochi mesi dall’amministrazione di una piccola città rurale – South Bend, in Indiana, centomila abitanti – al palcoscenico delle elezioni presidenziali. Durante il 2019 ci si è chiesto quando si sarebbe sgonfiata la sua campagna elettorale. Non è successo, e ora, a pochi giorni dall’inizio delle primarie, Buttigieg è in una buona posizione per ottenere dei delegati in Iowa e in New Hampshire. La resilienza di un candidato così particolare è dovuta a vari fattori, alcuni legati alle sue capacità, altri dovuti al particolare momento politico che vivono gli Stati Uniti.

Come Joe Biden, Buttigieg è entrato nella corsa presidenziale per bilanciare lo spostamento a sinistra del Partito democratico, potendo contare sulla sua esperienza nel convincere elettori moderati in una zona del paese – il midwest, al solito – su cui i democratici sembrano aver perso la loro presa. È convinto che il modello politico che gli ha permesso di vincere due volte nella sua città, basato su un’alleanza tra moderati di destra e di sinistra, sia esportabile al resto del paese. Finora c’è riuscito in modo sorprendente, uscendo dai confini del suo stato e facendo breccia in zone della cintura industriale dove Trump ha stravinto nel 2016. Ma la sua forza è dovuta principalmente alla frammentazione della base democratica e al fatto che nessuno dei candidati in corsa sembra del tutto convincente. Se anche dovesse ottenere un buon risultato in Iowa e in New Hampshire, due stati a maggioranza bianca con un elettorato non molto radicale, avrebbe grandi difficoltà a portare il suo messaggio nel resto del paese. Buttigieg è mal visto dai giovani – che lo accusano di essere poco di sinistra – e non piace ai neri, in parte semplicemente perché non lo conoscono, in parte perché da sindaco è stato accusato di aver sostenuto politiche discriminatorie contro gli afroamericani. Un cattivo risultato, invece, renderebbe quasi impossibile una sua vittoria finale.

Michael Bloomberg, incognita miliardaria
Difficilmente può vincere la nomination, ma la campagna elettorale dell’ex sindaco di New York e nono uomo più ricco del mondo è destinata ad avere degli effetti sulle primarie e sul Partito democratico in generale. La sua strategia non è facile da decifrare. Sappiamo che Bloomberg si è candidato perché è preoccupato che il partito si affidi a un candidato di sinistra come Sanders o Warren, e perché non si fida di Biden. Sappiamo che finora ha speso quasi 300 milioni di dollari, soprattutto per annunci in cui attacca Donald Trump, ha assunto 800 persone per la campagna elettorale e potrebbe arrivare a spendere almeno un miliardo di dollari da qui a novembre 2020. Sappiamo infine che ha messo in piedi una squadra elettorale con ex manager di Facebook, Foursquare e GroupM, l’azienda pubblicitaria con il fatturato più alto del mondo.

Michael Scherer sul Washington Post ha spiegato che “nonostante tutti i soldi spesi, le speranze di Bloomberg sono legate a fattori fuori dal suo controllo. L’ex sindaco di New York non parteciperà alle primarie nei primi quattro stati e comincerà la sua corsa nel super martedì del 3 marzo. Se Joe Biden otterrà un buon risultato nei primi, Bloomberg avrà difficoltà a convincere gli elettori moderati. Se invece i primi voti dovessero creare una situazione di incertezza, Bloomberg potrebbe ottenere un certo numero di delegati con cui condizionare la corsa o perfino affermarsi come il candidato in grado di compattare il partito”. Lo scenario più probabile, però, “è che Bloomberg voglia usare le sue enormi potenzialità economiche per aiutare i candidati democratici a tutti i livelli a essere eletti, a prescindere dall’esito delle primarie, in modo da trasformare il partito e condizionarne le scelte future”.

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