I 5 Super Bowl più spettacolari di sempre
In attesa della cinquantaquattresima edizione.
by Michele FaiellaC’è un momento, sul finire del film Cast Away, in cui Tom Hanks, tornato a casa a Memphis, dopo anni di naufragio, si trova da solo con sua moglie Helen Hunt. È un momento di grande imbarazzo, perché lei, dandolo per morto, si è nel frattempo risposata e ha avuto una figlia. Cosa puoi dire in una situazione del genere? Hanks punta sul terreno comune di qualcosa di condiviso, ma senza scendere in un’intimità che non c‘è più: «Quindi gli Houston Oilers sono diventati i Tennessee Titans?» chiede con finta noncuranza.
È l’appiglio cui aggrapparsi prima che tutto crolli: Helen lo coglie, si scuote e risponde quasi concitata: «E non è tutto. Sono andati al Super Bowl l’anno scorso. È stato pazzesco. Hanno quasi vinto, per una yard. One lousy yard right at the end». Certo, non è che un film, ma pochi secondi di pellicola bastano a raccontare molto di quello che il Super Bowl rappresenta per il popolo americano e non solo: un rito collettivo da vivere e condividere; il rintocco dello scorrere del tempo, anno dopo anno, da incastonare nella memoria di quello che succede nella vita che scorre.
Per questo ognuno ha un suo Super Bowl indimenticabile. Non per forza il più bello in assoluto, il più combattuto, il più spettacolare, ma quello che più di ogni altro si è impresso nella propria storia personale. Può essere il Super Bowl vinto dalla squadra del cuore, o quello perso per niente; il primo visto nella nuova casa che finirai di pagare tra 30 anni, o quello di cui ricordi più le birre con gli amici che il risultato finale.
Si capisce che in questo flusso di emozioni, di ricordi e destini incrociati, provare ad alzare la testa fuori dal suo scorrere per stabilire cinque Super Bowl che più di tutti gli altri siano rimasti impressi nella memoria collettiva non è semplice. Ma non per questo è un esercizio che non valga la pena fare, consapevoli che la soddisfazione del ricordare partite memorabili non potrà superare il rimpianto per le inevitabili, dolorose esclusioni. Per partire con qualche alleato di alto livello, allora, potremmo tornare a Cast Away e sposare l’eccitazione del ricordo di Helen Hunt: 30 gennaio 2000, Georgia Dome di Atlanta.
- Super Bowl XXXIV – St. Louis Rams 23 – Tennessee Titans 16
One yard short. È questo quello che rimane negli annali del Super Bowl numero 34: il ricevitore dei Titans Kevin Dyson con il braccio allungato verso la linea di meta e le gambe bloccate nella morsa del linebacker avversario Mike Jones. “The Tackle” la chiamano, oggi, quell’azione, con l’articolo e la maiuscola per elevare a valore assoluto quello specifico gesto, di per sé identico a quelli che a decine si ripetono in ogni partita di football. Perché l’essenza di questo sport, in fondo, è tutta lì: nella lotta tra chi cerca di avanzare e conquistare territorio e chi si erge a difensore di un confine. Il resto è puro contorno.
Certo, il fatto che mancassero solo 6 secondi alla fine e che quella fosse l’ultima azione possibile per i Titans per conquistare la vittoria aumenta il pathos, acuito dal fatto di aver portato a termine una rimonta di 16 punti, come mai nessuno prima in un Super Bowl. Con poco più di 2 minuti da giocare, però, Kurt Warner, quarterback dei Rams, MVP della stagione regolare (e, a breve, anche del Super Bowl), tira fuori un lancio da 73 yard che riporta avanti i suoi. Sembra tutto finito, ma c’è ancora tempo per l’ultimo drive dei Titans, che si ferma a un passo dalla gloria. Il risultato non cambierà: quella “one yard short” servirà solo a trasformare una vittoria in leggenda e a ricordarci che la vita è un gioco di centimetri, e così è il football.
- Super Bowl XXV – New York Giants 20 – Buffalo Bills 19
C’è un ruolo, nel football americano, che è il più ingrato di tutti: quello del kicker, l’uomo chiamato in causa unicamente quando l’azione offensiva non è riuscita ad arrivare in touchdown e ci si può “accontentare” di calciare la palla tra i pali per guadagnare 3 punti. È un ruolo ingrato perché può capitare di non vedere il campo per tutta la partita, e poi essere chiamato all’ultimo per provare a vincerla: un calcio solo quindi, decisivo, con tutta la pressione che potete immaginare.
Quella che forse non riuscite a immaginare è la pressione se sei a un Super Bowl, la tua squadra è sotto di un solo punto e il cronometro dice che mancano solo otto secondi allo scadere. Questa è la situazione che Scott Norwood, il kicker dei Buffalo Bills si ritrova ad affrontare la sera del 27 gennaio 1991 allo stadio di Tampa Bay. Kelly, mitico quarterback di Buffalo ha portato i suoi sulla linea delle 29 yard: aggiungendo la distanza della end zone e quella per sistemare il pallone, si tratta di un calcio da 47 yard. Circa 43 metri. Tanti, ma non tantissimi per un kicker della NFL. Solo che questo è il Super Bowl il pubblico rumoreggia, e due città intere trattengono il fiato, anche se per motivi opposti.
Il coach dei Giants chiama un timeout all’ultimo momento, come spesso si fa per aumentare ulteriormente la tensione di chi calcia. La sfida non è più tra una squadra e un’altra, ma tra un uomo e sé stesso. Devi sgombrare la mente, e pensare solo a calciare. Fuori. Niente lieto fine per Norwood e i suoi Buffalo, entrati nella storia dalla porta sbagliata. Pochi ricordano la partita combattuta, la rimonta di New York sotto 12 a 3. Il drive da 75 yard che dura l’eternità di 9 minuti e 29 secondi. Tutto si concentra unicamente su quel calcio sbagliato, talmente simbolico da aprire idealmente la successiva striscia di 4 sconfitte consecutive per i Bills al Super Bowl. Kicker, mestiere ingrato.
- Super Bowl LI – New England Patriots 34 – Atlanta Falcons 28
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Dopo 43 minuti di gioco il tabellone dell’NRG Stadium segna 28 punti per i Falcons e 3 per i Patriots. Il distacco è superiore ai minuti che rimangono prima della fine, prima di un titolo che ad Atlanta non hanno mai vinto. In Georgia qualcuno già festeggia.
A Boston spengono le tv, tutto sembra ormai scritto: Matt Ryan, quarterback dei Falcons, l’eroe da celebrare, Bill Belichick, coach dei Patriots, e Tom Brady, il suo quarterback, nonché faccia da copertina del football in quanto tale, sulla graticola dei perdenti. Ma bisogna fare i conti con uno dei mantra dello sport di ogni ordine e grado: non è finita finché non è finita.
Il touchdown del running back James White riaccende qualcosa nei giocatori di New England e apre una breccia nelle certezze dei Falcons. Nelle vene di Brady torna a scorrere del sangue freddo; la difesa ritrova la fame di chi vede che il boccone, forse, si può ancora addentare e con Hightower realizza lo strip-sack che apre nuovi orizzonti. Poi, quando Julian Edelman crea una ricezione che sembra uscita da un affresco di Michelangelo, l’impensabile pensiero della rimonta più clamorosa della storia del Super Bowl diventa una pagina incisa nei libri di storia. Il miracolo è compiuto: i Patriots vincono il loro quinto Superbowl ed entrano a spallate nel mito dello sport.
- Super Bowl XLII – New York Giants 17 – New England Patriots 14
Per parlare di quanto andato in scena il 3 febbraio 2008 all’University of Phoenix di Arizona si può usare la classica contrapposizione tra Davide e Golia. Nella parte di Davide ci sono i New York Giants di Eli Manning, fratello del più noto Peyton, uno dei quarterback più forti della storia NFL, chiamati a contrastare la corazzata – Golia dei New England Patriots, una squadra che durante la stagione regolare non ha mai perso una sola partita ed è da tutti data per super favorita.
Il “piccolo Manning”, munito di casco e corazza e con un braccio come fionda, anziché utilizzare un sasso colpisce in fronte l’avversario con un lancio miracoloso: sfugge ai difensori che sembrano ormai averlo placcato e lancia lungo verso il suo ricevitore David Tyree. New York è sotto nel punteggio e alla fine mancano solo 64 secondi. Il lancio non è perfetto e per completare l’opera serve un altro pezzo di miracolo: quello che passerà alla storia come “The Helmet Catch”. Perché Tyree, per far sua quella palla, salta in mezzo ai difensori dei Patriots e riesce a catturare la palla serrandola tra la mano e il proprio casco, in un gesto atletico che sfida le leggi della fisica e sancisce il 17-14 finale. Il gigante è caduto. E la “Helmet Catch” entra direttamente nell’olimpo dei momenti più significativi della storia dell’NFL.
- Super Bowl XLIX: Patriots 28 – Seahawks 24
C’è tutto nel Super Bowl 49 giocato il 1º febbraio 2015 allo stadio di Glendale, quasi come sia stato una sinfonia nella quale ogni strumento contribuisce, con il proprio timbro, alla bellezza collettiva del tutto. Vincitori e vinti in pari misura (o quasi). C’è Tom Brady, il quarterback già nel mito, che nell’ultimo quarto mette in moto la migliore versione di sé stesso costruendo, passaggio dopo passaggio, una rimonta in un crescendo rossiniano. C’è Russell Wilson, il quarterback di Seattle, che sembra la corda di un violino in grado di assorbire qualsiasi maltrattamento dell’archetto emettendo sempre un suono eccezionale. C’è Jermain Kearse, ricevitore-percussionista, che sta in un angolo del palcoscenico ma quando serve inventa una presa in grado di evocare la Helmet Catch di David Tyree. C’è coach Carroll, il direttore d’orchestra di Seattle, che stecca in maniera clamorosa una chiamata, scegliendo di lanciare la palla quando tutto il mondo l’avrebbe affidata alla potenti gambe del primo violino Marhawn Lynch, uno dei running back più forti della Lega. Infine, c’è l’indimenticabile assolo di Malcom Butler, la matricola entrata all’ultimo secondo giusto per intercettare il passaggio decisivo. E per chiudere il sipario su uno spettacolo da applausi.