Luna nera è una serie mediocre ma di grandissima importanza
by Paolo ArmelliLa nuova serie italiana di Netflix propone un immaginario suggestivo ma è flagellata dalle ingenuità formali, anche se il suo messaggio femminista e il suo cast di donne è un segnale cruciale per lo spettacolo del nostro Paese e non solo
Aprire la strada è sempre complicato, soprattutto quando si ha l’ambizione di esplorare territori mai varcati prima, portandosi però dietro la zavorra di immobilismi precedenti: è un po’ il caso di Luna nera, l’attesa nuova produzione originale italiana di Netflix che sbarca dal 31 gennaio sulla piattaforma di streaming. Dopo Suburra e Baby, dunque, si tenta in pieno stile la strada del fantasy, un genere mai tentato prima in tutta la sua interezza nel nostro paese a livello seriale: si parla di streghe, siamo nel Lazio del Seicento, e protagonista è Ade (Antonia Fotaras), una giovane levatrice accusata con la nonna di aver causato la morte di un neonato. Dovrà mettersi al riparo col fratellino Valente (Giada Gagliardi) e lo farà in una comunità di donne che si sono sottratte al mondo, mentre un gruppo di fanatici, i Benandanti guidati dal conciatore Sante (Giandomenico Cupaiuolo), perseguitano tutte le sospettate accusate di eresia.
Non si può dire che l’immaginario formalizzato qui, a partire dal romanzo Le città Perdute. Luna Nera di Tiziana Triana, non abbia la sua compiutezza e il suo fascino, evitando il più possibile l’effetto derivativo da altre opere simili: l’estetica medievaleggiante di ambientazioni e costumi è convincente e mai grottesca, gli effetti speciali appaiono sorprendentemente poco artigianali, c’è una radicamento alla natura e alla plausibilità della magia che è quasi rassicurante. Eppure i problemi, i grossi problemi stanno altrove, principalmente nella recitazione e nella narrazione. Il cast di attori è sicuramente di un livello elevato (in particolare Manuela Mandracchia, Lucrezia Guidone e Federica Fracassi, che interpretano Tebe, Leptis e Janara, le streghe che accolgono la protagonista), ma nessuno sfugge a una resa eccessivamente enfatica di qualsiasi battuta: è tutto uno scandire teatrale, uno sbarrare gli occhi, un declamare quasi incessante. Fotaras, pur di indubbio talento, recita sempre tesissima, mostrando poche sfumature se non l’orlo del pianto.
Anche la storia purtroppo vacilla trascinandosi su sei episodi quasi su una timidezza, un non voler osare troppo: le scene si rimbalzano di continuo fra soli due scenari sostanzialmente, la città controllata dai Benestanti e il covo diroccato delle streghe, senza che nulla accada di rivelante fino al finale, il cui tasso di ambiguità in effetti scatena molta curiosità per la seconda stagione. Fino appunto al colpo di scena conclusivo, che stupisce e turba, tutto è estremamente pulito, ordinario, quasi rassicurante, molto parlato e poco agito, tanto che il motore principale della vicenda sembra essere la contrastata storia d’amore fra Ade e Pietro (Giorgio Belli, anche lui bravo e bello eppure sempre “sparato“), figlio di Sante ma anche mente illuminata e ribelle (“Le streghe smetteranno di esistere quando voi smetterete di bruciarle“, dice). In una serie che cerca di concentrarsi in tutti i modi sul femminile, il ruolo di Pietro e dei suoi dissidi interiori è fin troppo marcato, con Ade che è quasi ancillare all’attrazione o repulsione magnetica che il ragazzo esercita su di lei. Il fantasy in qualche modo finisce schiacciato dal romance, in uno strano e già visto incrocio fra Fantaghirò ed Elisa di Rivombrosa.
Pur coi suoi mille difetti, Luna nera è una serie che va in ogni caso vista. Sembra una conclusione paradossale eppure lo è meno di quanto appaia, soprattutto se si considera il contesto. Questa produzione seriale in Italia è piuttosto rivoluzionaria non solo perché insegue un genere in altri paesi decisamente più consueto, e quando si attiene alla ricetta fondamentale dei suoi elementi ci riesce anche bene; ma anche perché segna un cambio di passo che è epocale nell’industria dell’intrattenimento italiano (tutto è italiano qui, in effetti, tranne – assurdamente – la colonna sonora in inglese). A dirigere la serie, e soprattutto il suo cast prevalentemente femminile, ci sono tre donne Francesca Comencini (anche direttrice artistica), Susanna Nicchiarelli e Paola Randi, su una sceneggiatura di altre tre donne: Francesca Manieri, Laura Paolucci e Vanessa Picciarelli, assieme alla stessa scrittrice Traina. Ovviamente questo non basta a farne una buona serie, ma crea comunque un precedente illustre che non si potrà evitare di prendere in considerazione.
Anche perché questo sguardo femminile (importante – ribadisco – non perché femminile di per sé, ma perché diverso e quasi sovversivo rispetto a quanto siamo stati sottoposti da sempre) è legato profondamente al cuore pulsante e cruciale della serie. Superate le goffaggini e le inesperienze, Luna nera è una grandissima allegoria della condizione femminile di ieri ma purtroppo soprattutto di oggi: in molti casi l’essere strega equivale semplicemente all’essere donna, a essere cioè un elemento della società marginalizzato, colpevolizzato e perseguitato. Ade, Tebe e le altre hanno il colpito di salvare tutte le donne perseguitate da un mondo maschile e oscurantista (il grande villain, giustamente, è un frate fanatico), ma anche di salvarle dalla loro stessa sottomissione: “Se continuerai a guardarti con gli occhi di chi ti odia rimarrai per sempre una strega“, si dice a un certo punto. L’obiettivo, dichiarato esplicitamente, è quello di “creare un mondo nuovo, un mondo dal volto di donna“. Luna nera è una serie convintamente e coraggiosamente femminista, che parla però a un pubblico più ampio possibile. Se lo spettatore, eliminati gli orpelli retorici, si porterà a casa almeno questo, sarà già un risultato importantissimo.