Addio a BoJack Horseman, il perdente che ci ha salvato tutti quanti
by Paolo ArmelliLa serie animata ha avuto un impatto fondamentale sulla narrazione di una generazione ripiegata su sé stessa, ma ha anche cercato la sua identità in un'originalità assurda e una strenua sfida agli schemi
Nel trailer che introduce gli ultimi episodi di BoJack Horseman, la serie animata di Netflix che si conclude a partire dal 31 gennaio, il protagonista, ora nelle vesti non proprio convincenti di professore universitario, scrive con un pennarello indelebile su una lavagna: come sempre nella creatura di Raphael Bob-Waksberg, tutto è molto simbolico ed eloquente. Non solo il protagonista BoJack, cavallo antropomorfo ex star delle sitcom e da anni in cerca di redenzione, commette l’ennesimo errore con qualcosa che non si può cancellare, ma allo stesso modo, più in generale, è evidente che tutta questa avventura animata durata sei anni non possa che avere lasciato un segno marcato, evidente e incancellabile nel mondo della serialità tutta.
Delle peculiarità di una serie come BoJack Horseman, e soprattutto del fatto che non siamo pronti a lasciarla andare, si è già parlato diffusamente. È bene però ribadire come questa serie animata sia stata molto più di un titolo perso nell’ormai strabordante oceano dei cataloghi streaming. Ordinata nel 2014, quando ancora le produzioni originali erano appannaggio quasi sempre delle reti tradizionali, dopo una partenza incerta è riuscita a imporsi velocemente come una delle creazioni più originali e profonde nel nostro panorama narrativo e, più in generale, in un immaginario che non poteva che essere lo specchio deformante ma anche realistico di una società piena di fantasia ma anche di inquietudini. Dipendenze e abuso di sostanze, violenze sessuali, armi da fuoco, suicidio, depressione: non c’è tema oscuro che BoJack non abbia attraversato. Eppure il fondo più traumatico della sua storia è più astratto e universale: l’insoddisfazione di sé, la proiezione delle aspettative altrui, l’impossibilità di salvarsi.
In una società social ossessionata dall’immagine e dalla iperperformatività, BoJack Horseman mette in campo una celebrità di Hollywoo(d) ormai sull’orlo del precipizio e lo circonda di persone altrettanto frustrate: l’idealista scrittrice Diane, l’agente nevrotica Princess Carolyn, l’inquilino inconcludente Todd e così via. Uno zoo reale e figurato che condensa tutte le occasioni mancate dei nostri tempi e utilizza i tropi della celebrity culture ma anche degli stessi meccanismi comici per sovvertire ogni tipo di effetto: questa serie fa ridere, sorridere sì, ma squarcia i nostri veli, ci costringe all’introspezione, ci commuove perché parla di noi, e di tutti. Non è un caso che BoJack, dai suoi picchi di originalità ma anche assurdità, abbia ispirato (assieme all’altro apice in questo senso, Rick and Morty) una pletora di nuove animazioni per adulti che stanno rifondando un genere che finora era stato saturato dai Simpson: Big Mouth, Final Space, F is for Family, la più recente Undone e in futuro The Prince.
Ma anche fuori dal recinto apparentemente di nicchia rappresentato dai titoli di animazione, ha sicuramente influenzato parecchio il modo di fare serie anche nel reame delle live-action: Atlanta, Transparent, High Mantainance e molti altri sono esempi di ibridazione fra dramma e comedy che hanno come minimo comune denominatore lo scandagliare l’inquietudine del vivere odierno, soprattutto di una generazione di mezzo schiacciata fra il fallimento dei boomer e la presunta inconsistenza dei millennial. Priva di un posto nel mondo ma soprattutto di qualsivoglia prospettiva di successo, quella generazione ha partorito una narrazione chiaroscurale delle svariate ansie degli anni Duemila, sublimandola in un’evasione che non è altro che un (salutare?) ripiegamento su sé stessi. Se si pensa a un’altra serie comica, ma meno leggera di quanto si possa credere, ovvero The Good Place, anch’essa in conclusione in questi giorni, ci si accorge di un panorama morale ben complicato, filosofico addirittura, che caratterizza la tv di oggi.
Certo, BoJack Horseman ha dalla sua quella di aver potuto, per il suo stesso dna animato, sperimentare in modi impensabili per altri versi: dall’episodio quasi muto Fish Out of Water al monologo interiore sulla depressione di Stupid Piece of Shit, passando per la lunghissima sequenza a un funerale di Free Churro, si è voluto ripiegare su sé stessa anche la narrazione, dimostrando quanto i cliché della ripetitività e della tradizione siano puri orpelli formali che debbano essere piegati a piacimento. Il tempo, la memoria, la durata, il ripetersi degli errori, l’imprevedibilità della vita sono concetti costantemente superati qui, non solo da una propensione psichedelica, ma proprio per una sfida continua al limitante dato di realtà: difficile pensare ad altri prodotti innovativi di oggi, come Russian Doll e Euphoria (in cui tornano prepotenti temi come la ciclicità, lo stordimento, l’autolesionismo), senza questo nume tutelare a forma di equino.
Tutto ora però si conclude, e non certo per volontà del creatore Bob-Waksberg, che ha più volte dimostrato il suo dissenso nei confronti della decisione di chiudere la serie. D’altronde viene da chiedersi se, nel panorama seriale di oggi, Netflix avrebbe scommesso con la stessa convinzione e tenacia su questo prodotto, giunto per certi versi miracolosamente alla sua sesta stagione in un mare di titoli che ultimamente vengono cancellati dopo il secondo o terzo ciclo (lo stesso spin-off Tuca and Bertie, pur più vivace e femminile, è stato cassato dopo la prima stagione). In effetti è paradossale pensare che BoJack Horseman abbia dato così tanto in termini di qualità e originalità alle serie tv proprio in un periodo in cui questa lezione viene rifuggita (vanno molto il fantasy, l’horror e il revival, dove i messaggi attualizzanti vengono astutamente camuffate in abiti di diversione e stupore).
È ancora una volta tutto una grande metafora: il povero BoJack non riesce a essere attuale nemmeno nell’epoca che più di tutte dovrebbe essergli riconoscente. Eppure lui è così com’è, pieno di difetti e di straordinarie qualità, egoista eppure portatore delle lezioni più sagge e importanti che la tv di questi anni ci abbia dato: si sbaglia, si chiede perdono, si ricomincia e si sopravvive, così all’infinito. O fino alla fine.