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Johannesburg 

la Repubblica

Sudafrica, a processo gli aguzzini dell'apartheid

Per la prima volta un tribunale giudica il braccio violento del potere razzista. Dal 1960 al 1990, nella "Security Branch" di Johannesburg  sono state torturate e uccise 73 persone.

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Piazza John Vorster a Johannesburg era la sede della polizia sudafricana e del cosiddetto "Security Banch", una struttura apposita per la sicurezza dello Stato. In città il profilo blu del palazzo era sinonimo di paura. Molti di quelli che hanno combattuto l'apartheid sono passati in manette da lì. Al decimo piano si trovavano le celle e le stanze per gli interrogatori. Neil Aggett, 28 anni, bianco, sindacalista e medico, morì lì in una cella, con una corda al collo. Suicidio, dissero, ma grazie alla cocciutaggine dei genitori, il suo fascicolo è stato riaperto ed è cominciato un processo.
 
Il 27 novembre 1981 Aggett viene portato via dalla polizia. I suoi sono preoccupati. Un mese dopo, il 31 dicembre, la polizia avverte che da lì a poco verrà liberato. La notte tra il 4 e il 5 febbraio del 1982 viene trovato appeso con una "kikoi", una sciarpa colorata comune in Africa dopo 70 giorni di detenzione.

"Una messa in scena perché sembrasse suicidio. È invece omicidio", dice la sorella di Aggett. Arthur Cronwright, maggiore del Security Branch, aveva trovato una lettera "ai compagni" redatta da Barbara Hogan, detenuta al decimo piano. "Hitler, come era soprannominato da tutti Cronwright, aveva torturato anche Aggett a quel fine. Io stessa avevo cercato di togliermi la vita per le torture subite. Tornare a quei giorni - ha osservato in tribunale Hogan, dieci anni di prigione alle spalle - è stato per me un supplizio, ma è giunto il tempo di farlo".
 
Cronwright, morto nel 2012, in vita non aveva mai chiesto scusa per i suoi reati di fronte alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Al banco dovrebbe arrivare un altro esponente del Security Branch, Nicolaas Johannes Deetlefs, che interrogò Hogan e Aggett. Attraverso i suoi avvocati ha però già negato ogni responsabilità.
 
Al decimo piano il 27 ottobre 1971 morì anche Ahmed Timol, indiano, tren'anni, esponente in esilio del Partito comunista. Al decimo piano il 16 febbraio 1977 morì Matthews Mabelane, nero, 23 anni, studente. Dal 1960 al 1990 sono stati uccisi in prigione 73 detenuti e di tanti neri non si sa dov'è sepolto il cadavere. Non si è mai trovato, per esempio, il corpo di Nokuhula Simelane, 23 anni, arrestata il 23 settembre 1983, torturata per due anni e poi uccisa.
 
Ora, con il processo per la morte di Timol, il primo a essere intentato contro il potere razzista, e poi di Aggett, il vaso dei serpenti si è dischiuso. Nessuno aveva intenzione di aprire quelle pagine pur sapendo che i morti pesano sulla coscienza del Paese. A 49 anni dall'uccisione di Timol e a 38 da quella di Aggett forse è venuta l'ora di fare un po' di conti con l'apartheid. "I familiari hanno aspettato proprio per sapere la verità", dice l'arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace.
 
Ora il palazzo in Piazza John Vorster, che fu primo ministro e presidente della Repubblica, si chiama Centrale di Polizia e cerca di scrollarsi di dosso quei tempi.