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Le tangenti non ci sono Il processo flop all'Eni è già costato 100 milioni

Sono le spese affrontate dall'ente per la difesa sui casi delle presunte mazzette in Africa

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Milano Se si chiede alla Procura di Milano quanto è costato imbastire il processo Eni-Nigeria, la risposta è che un bilancio complessivo dell'inchiesta non c'è, «ma comunque non abbiamo speso molto»: una sola consulenza, qualche traduzione, e poco altro. Se invece lo si chiede all'Eni, che dalle accuse di corruzione internazionale mossa a lei e ai suoi manager ha dovuto difendersi, i conti che in qualche modo si riesce ad avere sono piuttosto precisi: 54 milioni di euro fra parcelle, perizie, audit, consulenze e quant'altro. Un budget che anch'esso, come quello della Procura di Milano, pesa in parte sulle spalle dei contribuenti in termini di minore redditività. E che fa il paio con l'altro salasso subito dall'ente energetico di Stato per il processo-gemello per le presunte tangenti in Algeria: 47 milioni di euro, compresi gli astronomici onorari agli avvocati americani per difendersi nel fronte di indagine Oltreoceano. Conto totale, oltre cento milioni.

Si dirà: l'Eni può permetterselo. E poi sono i costi della giustizia, l'investimento che la collettività è chiamata a fare in nome della legalità e della trasparenza. Giusto. Il problema è che ad aleggiare su questa montagna di quattrini è un dubbio che udienza dopo udienza si rafforza, come uno spettro che inevitabilmente porta a leggere tutto in un'altra luce. Quello che il processo non stia in piedi. Che le tangenti che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale è convinto di avere scoperto esistano in realtà, come sostiene l'Eni, solo nei racconti coloriti di personaggi improbabili. E che insomma né l'ex amministratore delegato Paolo Scaroni né il suo successore Claudio Descalzi abbiano mai ordinato di pagare a colpi di mazzette il diritto di sfruttare i giacimenti africani.

Per quanto riguarda le mazzette in Algeria, a dire il vero, il dubbio si è già abbondantemente concretizzato: assolta l'Eni, assolto Scaroni, assolta in appello anche la controllata Saipem. Adesso tocca alla Nigeria. L'altro ieri, in udienza, gli ultimi due testimoni dell'accusa, le ultime due carte di De Pasquale per convincere i giudici si sono trasformati in altrettanti boomerang: sia il poliziotto nigeriano Isaac Eke sia il capocentro dei servizi segreti italiani in Nigeria hanno smentito su tutta la linea la «gola profonda» della Procura, l'ex funzionario Eni Vincenzo Armanna. Mai visti trolley con i quattrini, mai saputo niente dell'andirivieni di tangenti e di creste. In aula il coup de théãtre è tale che persino gli avvocati difensori sembrano colti alla sprovvista e si scambiano il 5 come giocatori di pallavolo dopo un colpo vincente.

Che anche qua tutto finisca con un'assoluzione generale, è a questo punto una possibilità concreta. E questa ipotesi invece di svelenire il clima lo peggiora, lo incupisce ulteriormente. Perché da un lato la Procura della Repubblica appare convinta che se tutto si sgretola è solo perché qualcuno ha comprato i testimoni, riapparsi in scena ribaltando confessioni precise ed accuse dettagliate in lunghe sequenze di «non so» e «non ricordo». Dal lato opposto si accusa la Procura di essere ormai alla caccia di un risultato purchessia: se non la condanna almeno la destituzione di Descalzi, la cui carica è al vaglio delle prossime nomine, ma fin quando non viene assolto è a rischio poltrona. E i quaranta giorni che De Pasquale ha chiesto per preparare la sua requisitoria potrebbero mettere il manager in difficoltà nel valzer delle nomine.

LF