Donne dietro l'obiettivo, fotografarsi dentro prima di guardare fuori

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Ufficio stampa/Inge Morath
USA. New York City. 1957. A Llama in Times Square.

Esiste uno sguardo femminile in fotografia? Come già per la letteratura, la questione oscilla tra il rischio di inciampare in una discriminazione classificatoria per genere e la rivendicazione di un’identità specifica, di un linguaggio che arriva dalle donne, nel percorso di un secolo tra battaglie femministe e rivoluzione dei costumi che dal genere ha condotto una battaglia di rivoluzione culturale.

In generale, possiamo dire che lo spostamento di sé da oggetto di ritratto, a soggetto che prende la parola (o la camera) modifica le prospettive antropologiche, politiche, i valori e modifica anche le poetiche, gli stili. La ricchezza della produzione delle donne fotografe nel 900 è cresciuta con il livello della rilevanza sociale delle donne.

Già una traccia di questo slittamento del punto di vista è visibile nella bellissima mostra “Wo|Man Ray” a Torino, Galleria “Camera, Centro italiano per la fotografia”, (fino al 19 gennaio 2020) dedicata al rapporto tra Ray e le donne (principalmente come s/oggetto di fotografia, compagne, collaboratrici, modelle) e che però offre anche una piccola ma significativa “mostra nella mostra”, ad esempio nella sala dedicata a Berenice Abbott, in cui sono presenti i ritratti che grande fotografa, a quel tempo giovane assistente, fece a vari personaggi e dove è evidente la differenza: Ray punta alla forma del corpo, a farne oggetto d’arte; Abbott si concentra sulla persona fotografata, restituisce l’umanità nuova del singolo individuo che ha di fronte.

Giuliana Traverso che per quarant’anni ha tenuto una scuola di fotografia per sole donne, diceva “la grande differenza della donna fotografa è che sa guardarsi dentro prima di guardare fuori”. Lo sguardo di Ray è diverso da quello di Abbott e anche dell’altra fotografa Lee Miller, e per loro – come per le modelle più note come Kiki – anche la sperimentazione passò nell’avere un ruolo attivo anche come modelle.

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Sono sempre di più e sempre più riconosciute le fotografe del ’900, in un canone che certo ha nella persona e nell’empatia, il punto centrale di indagine. Diane Arbus, Vivian Maier, Tina Modotti, Dorothea Lange, Cindy Sherman, Carla Cerati, Francesca Woodman, Nan Goldin, Letizia Battaglia (“Storie di strada” è la retrospettiva a Palazzo reale, Milano, dedicata alla fotografa siciliana, fino al 19 gennaio).

L’elenco è incompleto, sarebbe lunghissimo. Esemplare la storia di Gerda Taro, riemersa all’attenzione anche grazie al romanzo “La ragazza con la Leica” di Helena Janeczek , fotografa della morte (dal fatto che il suo compagno e sodale Robert Capa nome fittizio, inventato dalla Taro col quel fidanzato, Endre Friedman, che poi – morta lei a 26 anni in Spagna – sarà usato da lui, tutta la vita, come proprio nome d’arte, diventando la star del fotogiornalismo, oscurando involontariamente il talento precoce di Gerda).

Una sorte non tragica, ma brillante e pure in bilico sul confine privato/pubblico è nella vicenda artistica e biografica di Inge Morath di cui è visibile a Roma una bella mostra (“Inge Morath. La vita. La fotografia”, Museo di Roma in Trastevere, fino al 19 gennaio, curata da Marco Minuz, Brigitte Blüml-Kaindl e Kurt Kaindl). Una retrospettiva in 12 sezioni e 140 immagini.

Anche per Morath l’incontro con Robert Capa fu importante, divenne la prima donna a far parte dell’Agenzia Magnum – con un reportage sui preti operai veneti. Esposte foto dei suoi numerosi viaggi (dall’Iran alla Cina, la Russia, la Gran Bretagna, la Spagna, una strepitosa Venezia, povera e scalza, tutti luoghi raccontati con uno sguardo che ormai è storia per noi) e poi i suoi ritratti, sia di gente comune sia di scrittori, artisti, attori, per tutti vale la definizione data dalla figlia, Rebecca Miller “un sentimento di gioia sensuale”.

Uno dei suoi più noti è quello fatto a Marilyn Monroe, che incontrò accompagnando Henry Cartier Bresson, di cui era assistente, sul set de “Gli spostati” film sceneggiato dall’allora marito dell’attrice, Arthur Miller. La fotografa solitaria, un po’ scomposta, che prova passi di danza, crea un’anti-icona rispetto all’immagine hollywoodiana. Di quell’incontro decisiva fu la conoscenza di Miller, tuttavia, che diventerà suo marito nel 1962. Vivranno tutta la vita assieme.

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Ufficio stampa/Inge Morath
Inge Morath, Marylin Monroe sul set di "Misfits", Nevada, 1960

“Ho sempre continuato a volermi sentire una dilettante” dirà di sé. Tra cura dei dettagli e casualità, libertà di corpi quasi mai catturati in posa, innescando un’empatia verso la persona fotografata, che si restituisce all’osservatore. Inge Morath era accuratissima nei suoi scatti, ma non voleva mai incontrare prima il soggetto, si fidava dell’incontro, riadattava lo spirito di teatrale di quella “sensual joy” di cui parlava la figlia.

Ogni fotografo e ancora di più ogni fotografa ha un modo tutto suo di vedere il mondo. In fondo, raccontava Inge Morath, la fotografia ”è un fenomeno strano. Ti fidi dei tuoi occhi e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima”. Essere una fotografa significava quindi anche non porsi nella posizione di potere di chi inquadra un oggetto. Entrare e uscire anche dalla stessa posizione dello sguardo, dalla stessa soggettiva, farsi altro, recuperare la spontaneità, catturare la normalità eccezionale di una metropoli, dove puoi vedere un lama trasportato in automobile in piena Manhattan, col suo collo fuori dal finestrino, guardare in camera, quasi sorridere.

Quello scatto del 1957 è iconico non solo del lavoro di Inge Morath, ma di quella New York del dopoguerra felice, che era stata appena lasciata da Vivian Maier, che nel frattempo scattava migliaia di foto, invisibile e ancora sconosciuta, in strada anche lei, osservando il modo come se quello sguardo nuovo ne cogliesse frequenze diverse, e volesse rifondarlo, attraverso un’empatia, fisica e spontanea, jazz, che preparava una rivoluzione della soggettività degli anni 60: il lama comparve in “Life Magazine” a Dicembre, ma il 5 settembre 1957 era uscito il capolavoro di Jack Kerouac e l’America aveva iniziato a raccontare in modo diverso sé stessa, la gioia irruenta e selvaggia di essere on the road.

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Ufficio stampa/Inge Morath
Mexico. Durango. 1959. Actress Audrey Hepburn during filming of "The Unforgiven," directed by John Huston.