Le nostre attese perenni, immobili in un luogo fratturato

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Suchota via Getty Images

C’è un luogo, che esiste, che c’è. Un luogo senza nome, senza residenza, senza somiglianza. Questo luogo è una città, che saremo tentati di immaginare piccola, ma piccola o grande non ha poi molta importanza. Dentro a ogni luogo grande ognuno si ricava un piccolo dentro il quale stare, e non è detto starci bene, non è per forza starci male.

Un microcosmo fratturato in minime stanze, bar che appaiono altrettanto minuscoli, vicoli più che vie, lampioni bassi più che illuminazioni potenti, ragazzi che ogni tanto sembrano vecchi. Presenze, assenze, abbracci, ricerche e scomparse. Un luogo che non rivela subito i suoi colori. Qualcuno direbbe malinconico, qualcuno potrebbe sostenere che sia inventato, ma non lo sono tutti?

Un luogo, soprattutto, né triste né allegro, un luogo specchio delle persone, un luogo scomposto in frammenti e poi composto, riassestato, dentro a una storia fatta di cose accadute, che avrebbero potute accadere, che mai accadranno. Un luogo misterioso e urbano, sospeso ma reale, cinematografico e poetico. Un luogo nel quale, per qualche tempo, vorremmo provare a stare. È il luogo ideato da Andrea Accardi nel suo libro Frattura composta di un luogo (Giuliano Ladolfi editore, 2019).

“La cittadina è stata costruita negli anni settanta, interamente per i pedoni, tutta salite e discese, scalinate e scivoli. Di notte le luce delle auto fuori del perimetro mostrano però l’inganno”.

Il libro è costruito in frammenti, piccole prose, il passo è narrativo, la sintesi e la capacità evocativa appartengono alla poesia. La narrativa serve al racconto, la poesia rende possibile lo scarto tra reale e fantastico, tra immaginario e possibile. Il primo frammento, qui su riportato, chiarisce subito molte cose con poche parole.

C’è una prima descrizione del luogo, una sua collocazione temporale, un dettaglio significativo sulla sua viabilità. Immediatamente dopo c’è il primo salto, il primo dubbio che si insinua. Una luce, seppur fuori perimetro, da lontano, una luce mobile mostra l’inganno. E l’inganno qual è? Non è certo nascosto nel piano stradale del luogo. L’inganno è in ogni immagine che ci viene mostrata e in ognuna che ci viene sottratta dal regista. Così ci insegna il cinema, così è capace di fare il fotografo, così fa, se occorre, lo scrittore.

“In sette stanotte hanno visto il rapace azzurro nella luce della luna, a guardarlo sembrava ingigantirsi. Poi hanno ripreso a camminare, scomparendo l’uno per l’altro.”

Questo piccolo libro parte da molto lontano, da I segreti diTwin Peaks di David Linch, da quella maestria, le ossessioni, dalla signora Margaret Lanterman, citata da Accardi in esergo, e da quei misteri che ci hanno preso e portato via per anni, a quei personaggi cui ancora pensiamo, a Laura Palmer che ancora cerchiamo. Laura Palmer che morendo (ma sparendo) è diventata nel tempo una piccola parte di chiunque abbia guardato quella geniale serie tv. Così come accade con le visioni e premonizioni del personaggio di Lanterman, Accardi premonisce un tempo e un mondo fatto di precarietà, piccole verità, scenari sicuri e incertezze.

I frammenti c’erano da prima, si avvertono, come se una serie di parole e di immagini avesse volato sopra il luogo prima che ci fosse e formandolo. Il luogo di Accardi non è fatto di pietre, muri, alberi, tegole o foglie, è fatto di vocali e consonanti infilate una dietro l’altra, è fatto di tutto ciò che siamo capaci di ascoltare e di vedere, dopo che l’autore ha visto.

“Il professore peruviano narcolettico. Canta di petto canzoni popolari. Dice ogni tanto a qualche alunno «Lei farà strada». Poi scompare tra gli scaffali.”

I protagonisti sono ragazzi, studiano, bevono, fanno sesso, apparentemente non pensano ad altro, non sentono altro, ma l’altro c’è, l’altro è il luogo, è l’inganno, è il nulla dietro la curva, è una porta che non si chiude, una finestra che non sa dove guardare. Se siamo in una piccola mappa, in un territorio circoscritto, non possiamo non aspettarci un salto nel buio, o, meglio ancora, un vuoto. Ecco che una luce si spegne, la mappa non indica, una ragazza scompare, qualcuno avvista un rapace azzurro, si attende l’arrivo di un grande personaggio.

“…trecentosessantasette fino a quel ciuffo d’erba lì se cammino dritto e non perdo la linea non muoio… devi parlare come se fossi al bar o a tavola sennò chi vuoi ingannare chi vuoi convincere? e quando ti sposti devi sentire che mi sposto anche io…”

È una prima prova molto convincente questa di Andrea Accardi, le tre parti del libro: Il luogo, I nomi, Le voci, sono divertenti e persuasive, mi pare che tutto si tenga dall’inizio alla fine. È una sorta di noir? O è un piccolo trattato sui nostri tempi? Accardi attraverso la sintesi della prosa breve costruisce un palcoscenico, sul quale va in scena una commedia che è quella umana, la nostra.

Se questo è un giallo, l’ispettore che risolve il caso è la poesia. Il delitto qui è commesso sulle nostre fragilità, l’onere della prova spetta alle nostre fratture, le nostre attese perenni. I ragazzi si muovono in un’immaturità perpetua dove le birre, il sesso, lo studio non fanno altro che rimandare il tempo a venire. La ragazza scomparsa e il rapace ci dicono che ogni tanto l’attesa finisce e bisogna fare qualcosa, persino crescere.

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Giuliano Ladolfi Editore
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