L'editoria italiana e la sindrome da crisi permanente
by Paolo ArmelliCritica semiseria a un mondo editoriale che vede dopo anni un aumento stabile delle copie vendute ma spesso è smarrito di fronte alla necessità di comunicare quegli stessi libri in maniera efficace
Si è conclusa domenica 8 dicembre Più libri più liberi, la fiera che raccoglie a Roma la medio e piccola editoria che opera in Italia. Il bilancio della manifestazione, una delle poche che sposta il baricentro editoriale nazionale da nord verso sud, è positivo: oltre 100mila presenze nei cinque giorni dell’evento ospitato nella Nuvola di Fuksas all’Eur (altrimenti spesso spopolata), tantissimi giovani, più di 18oo ospiti italiani e internazionali ad animare un ricco e ben scandito calendario di appuntamenti culturali e professionali. E poi ci sono anche i dati confortanti dell’Associazione Italiana Editori (Aie, organizzatrice della manifestazione): il mercato librario nei primi 11 mesi del 2019 cresce in generale del 3,7%, crescono il numero di copie vendute (+2,3% rispetto al 2018), e a crescere sono in particolare i piccoli e medi editori, con un tasso doppio rispetto agli altri (+6%) e una fetta del mercato che arriva a 45,9%.
Il segno più è sicuramente un dato che rincuora, anche perché erano anni che il segmento editoriali arrancava e anche quando si notava una crescita questa era di pochi punti dopo lo zero. Rispetto a altri generi di consumo, tutti in retrocessione in questi anni, rimane abbastanza solida la spesa media degli italiani per i libri. E questo è un fatto positivo. Ma tutto il resto lo è? Com’era l’atmosfera che si respirava durante i giorni della fiera sotto la struttura di ferro e vetro della Nuvola? Al netto dei visitatori interessati e appassionati di lettura, dall’altra parte della barricata (perché in fondo una lotta se non una guerra la è) l’animo è vicino allo sconforto: editori alla disperata ricerca di idee efficaci, uffici stampa sempre più sfiniti dalla mole di libri che viene pubblicata quotidianamente, autori in cerca di un pubblico sempre più frammentato (il 91% dei titoli pubblicati in Italia vende in media non più di 100 di copie, per dire dell’entropia assordante di un mercato che vive di sovrabbondanza).
Bastava fare un giro per i vari stand di Più libri più liberi per farsi prendere da una sensazione irrazionale ma significativa: ci sono troppi libri. Ed è assurdo pensarlo in una manifestazione che fa della libertà di espressione il veicolo più forte per la propagazione dei libri, ma il numero di guide del perfetto yogi, autobiografie di gatti, ricostruzioni della seconda guerra mondiale, ricettari di tempi andati, fumetti cattolico-edificanti, manuali di autoaiuto ai tempi del web e perfino guide su come pubblicare i propri libri fa pensare che non ci sia un freno nemmeno di fronte alla disarmante constatazione che i lettori sono pochi e sono sempre quelli, gli stessi peraltro che sono assediati da mille altre forme di intrattenimento e informazione (crescita per crescita, cresce anche il consumo di audiolibri e podcast, con un +28,3% rispetto all’anno scorso).
Gli stessi editori sono numerosi e spesso spaesati in un mercato che cambia sempre più rapidamente e quasi sempre in maniera bizzarra e insondabile. Disarmati di fronte a un sistema che li rigetta in continuazione, schiacciati dai grandi gruppi editoriali e dallo spauracchio di Amazon (non c’è discussione sulle sorti librarie che non citi Amazon come male assoluto e soprattutto assoluzione a ogni tipo di esame di coscienza), i piccoli e medi editori lanciano il cuore oltre l’ostacolo e si piegano a mali tanto rimandati quando ormai necessari: primo fra tutti la comunicazione web. Con una decina d’anni di ritardo c’è chi scopre i social, chi si azzarda a pensare ai book influencer (non solo come autori), chi si convince di aver fatto bene ad aver aperto un sito nel 2003. In pochi settori come quello dell’editoria c’è stata una pervicace diffidenza nei confronti di ogni tipo di novità, che non fosse quella atta a riempire scaffali delle librerie o fare da complementi d’arredo nelle case più pretenziose.
Eppure in questo mare di rassegnazione qualcosa si muove: dati da osservare con assoluto interesse sono quelli che riguardano l’internazionalizzazione dell’editoria italiana; nello scorso si sono ceduti all’estero 8569 diritti (+8,7% rispetto al 2018), una crescita maggiore rispetto a quella dei diritti acquisiti (comunque consistenti, più 9600). Si accendano subito ceri a Santa Elena Ferrante, dunque, ma soprattutto si colga l’opportunità di questa apertura sempre più frequente all’estero per osservare come certi titoli nostrani sono trattati oltre confine. Eventi come Più libri più liberi sembrano nella maggior parte dei casi occasioni perfette per confermare lo status quo, magari darsi una pacca sulla spalla, sicuramente spesso si trasformano di terapie di gruppo più o meno edificanti.
Gli editori italiani sono stati per decenni fra i più valenti in Europa, spesso lo sono ancora oggi ma sono paralizzati da una specie di paura del declino, già come si fossero imbalsamati in una preventiva cripta dei Cappuccini. Il problema è che spesso la produzione (sì, si tratta di produzione) di libri segue logiche stantie e automatiche che poco hanno a che vedere con certe esigenze culturali e ben che meno hanno a che fare con le esigenze dei lettori, e quando ce l’hanno non ci arrivano perché comunicati in modi dissennati. Un giornalista prossimo alla pubblicazione del suo primo libro (“Fa status”) nei giorni della fiera si lamentava delle idiosincrasie di questo mondo, dicendo: “Ormai bisogna scrivere un libro, trarci un podcast e poi trarre un libro dal podcast: allora sì che lo vendi”. Una fotografia perfetta di questa crescita paradossalmente statica: i libri ci sono, i libri perfino si vendono, forse gli editori ancora non hanno ancora capito bene cosa farne.