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Una manifestazione antigovernativa ad Algeri, il 6 dicembre 2019. (Billal Bensalem, NurPhoto/Getty Images)

La seconda primavera araba - Pierre Haski

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La seconda primavera araba

Oggi in tutto il Medio Oriente si scontrano due visioni del mondo. È già accaduto nel 2011, quando la scintilla scoccata in Tunisia si era trasformata nella “primavera dei popoli” che aveva portato alla caduta di diverse dittature, ne aveva indebolite altre ma era anche stata soffocata dalle atroci guerre civili in Siria, Yemen e Libia. Otto anni più tardi, questa parte del mondo sta incontestabilmente vivendo una seconda ondata di malcontento in paesi che non erano stati particolarmente coinvolti nel 2011, come il Sudan, l’Algeria, l’Iraq o il Libano.

In Medio Oriente non esistono due blocchi contrapposti come in passato o come indicano ancora i vecchi schemi di lettura, ma una frattura che attraversa ogni paese e ogni società.

La divisione è multiforme – generazionale, culturale, sociale, politica – ed è più complessa dell’opposizione binaria “sistema contro popolo”, contrariamente a quanto si possa pensare davanti alla partecipazione massiccia alle manifestazioni di protesta.

La storia non è finita
Nel corso di quest’anno cruciale l’Algeria ha mandato in pensione il suo presidente e il Sudan ha cacciato il suo dittatore, mentre Libano e Iraq hanno allontanato i rispettivi primi ministri. Si tratta di importanti successi per i cittadini, scesi in piazza spinti dalla classica “goccia che ha fatto traboccare il vaso”, dalla tassa su WhatsApp in Libano all’aumento del prezzo del carburante in Sudan. Ma le teste che cadono non significano la fine della storia, perché i sistemi dominanti resistono e non intendono rinunciare al potere e a tutto ciò che ne deriva.

L’Algeria, che va al voto il prossimo 12 dicembre per eleggere un presidente che gran parte del paese non vorrebbe, è senza dubbio l’esempio più sorprendente. Tutto è cominciato con la quinta candidatura di un Abdelaziz Bouteflika ridotto ormai all’impotenza, “l’umiliazione di troppo per la maggioranza dei 42 milioni di algerini”, come scrive in un illuminante saggio uno specialista francese del mondo arabo, Jean-Pierre Filiu.

L’Algeria e il Libano proseguono per la loro strada, tra rivolte pacifiche e minacce di “normalizzazione” da parte dei custodi dell’ordine

Nove mesi dopo, uscito di scena Bouteflika, l’hirak (il movimento) va avanti con milioni di manifestanti che sfidano il potere militare chiedendo un cambiamento radicale e non solo un nuovo volto alla presidenza.

Il Sudan è un caso scuola. Partito per primo, il paese ha pagato con il sangue, per poi concordare un compromesso storico basato su una transizione triennale verso un regime civile. Altrove non è andata altrettanto bene. All’altro estremo, l’Iraq ha scelto la linea dura e brutale, ma nonostante più di 400 morti la protesta non si è ancora placata. Tra queste due situazioni, l’Algeria e il Libano proseguono per la loro strada, tra rivolte pacifiche e minacce di “normalizzazione” da parte dei custodi dell’ordine prestabilito osteggiati dalla piazza, i militari ad Algeri, Hezbollah e i suoi alleati a Beirut.

Esterno al mondo arabo e in una situazione geopolitica particolare, anche l’Iran ha soffocato nel sangue le rivolte popolari, oltre a mantenere un ruolo importante nella repressione in Iraq (e più discreto in Libano).

La prima lezione da trarre da questi eventi è che le guerre atroci in Siria e Yemen non hanno scoraggiato gli altri popoli. La seconda è che l’aspirazione verso un “altro” Medio Oriente, libero dall’autoritarismo arcaico, inefficace e settario, non sparirà in tempi brevi, anche se potrebbe essere temporaneamente spezzata dalla forza. Questo deve far riflettere i dittatori in erba, ma anche quelli che li considerano ancora un “male minore”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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