Urbanistica di frontiera: ma su quali confini?
by Fabrizio BottiniMentre imperversano le ennesime scaramucce sul territorio tra comitati e interessi particolari sulla città, mi compare in bacheca del social network un post che recita «ABBONDANO URBANISTI DA TASTIERA. MANCANO URBANISTI DI FRONTIERA». Piuttosto pertinente alla gran parte del dibattito sulle trasformazioni, dove pullulano affermazioni di diritti individuali e progetti particolari, ma latita appunto qualunque idea di città, di convivenza, di regole condivise, tutto ciò che a ragione o a torto chiamavamo sino a tempi non remoti urbanistica. Un rapido scambio di battute col profilo di Anna Melone, militante ambientalista con lontani studi di discipline urbane e autrice di quel post fa emergere alcuni temi che riporto tra virgolette di seguito con minimi interventi personali in editing, per rendere comprensibile il testo:
«Quella frase, volutamente provocatoria, nasce dall'insofferenza nei confronti dei tuttologi del web. Oggi impera quella specie di urbanistica fatta di progetti particolari, tutta subordinata alle esigenze “di mercato”, il governo tecnico-politico delle amministrazioni pubbliche, nella quasi totalità dei casi non pare in grado di fronteggiare alla pari l'iniziativa degli operatori privati. Urbanistica di frontiera è anche soprattutto quella delle periferie, confini fisici e non tra ciò che è città e ciò che non lo è più, dove si concentrano le contraddizioni. E dove si potrebbe concentrare anche una risposta coerente a questo bisogno di nuova urbanistica. Un tempo nelle amministrazioni e culture progressiste si parlava di “urbanista condotto”, un tecnico a committenza collettiva in grado di ricomporre problemi e imprimere un indirizzo unitario e trasparente alle trasformazioni del territorio».
Per nulla retrotopico, nonostante il riferimento a un tempo passato, questo auspicio di urbanista di frontiera quindi, condotto o meno, che certo richiede, esattamente come fatto a suo tempo dagli interessi particolari oggi dominanti, una riflessione su chi e cosa sia, questa figura, chi la possa interpretare. Proviamo a partire dalla classica dialettica di una di queste grandi (o anche medio-piccole) trasformazioni che oggi avvengono in regime di urbanistica privatizzata. C'è l'interesse particolare che si crea preventivamente un proprio recinto di regole e spazi, entro il quale operare discrezionalmente, in piena legalità ma evidentemente non in piena legittimazione, visto che puntuale sorge la reazione dei piccoli interessi locali, quella classificata di solito dispregiativamente nimby. E l'ente pubblico che spesso interviene a valle dei processi a titolo di mediazione, interpretando forse correttamente questa dialettica come scontro tra interessi particolari forti e altri interessi particolari frammentati e minori. Il processo partecipativo che ne nasce vede un riaggiustamento incrementale tra la grande progettualità e la piccola, per risultati di solito piuttosto insoddisfacenti. E lo sono perché è mancata l'urbanistica in senso proprio, in uno scontro tra progetti e progettisti, senza il respiro del piano.
Un processo al tempo stesso governato pubblicamente e pienamente partecipativo, dove trovano spazio sia gli interessi in senso stretto che i diritti dei cittadini, potrebbe configurarsi come una sorta di «urbanistica contrattata trasparente», senza degenerare nel percorso cosiddetto negoziale (ovvero di costruzione dei recinti di discrezionalità accennati sopra) sancito per legge, e respinto a suo tempo, ma di fatto praticato specie nelle grandi trasformazioni. Qui torna però quella auspicata figura di nuovo urbanista: chi potrebbe essere? Forse semplicemente riportare le lancette indietro, tornando al governo pubblico così come formalmente si configurava fino alla scorsa generazione, sarebbe irrealistico e poco produttivo. Invece del citato urbanista condotto, pare più conseguente riferirsi alla figura dell'urbanista diffuso o urbanista cittadino, con una netta distinzione però rispetto al classico soggetto della partecipazione tradizionale, o di quella conflittuale odierna legata ai comitati locali. Un soggetto che per non essere un «tuttologo da tastiera», anche se traslato nell'assemblearismo, deve innanzitutto possedere strumenti di espressione critica diversi da quelli del progettista dilettante attuali, che di fatto lo pongono automaticamente in posizione di debolezza rispetto ai professionisti. E che si possono (in fondo lo auspicava già il britannico Rapporto Skeffington negli anni '60) riassumere nella capacità anche tecnica di esprimere i propri bisogni e aspirazioni. Oggi le tecnologie possono risolvere gran parte delle difficoltà, purché inserite in un processo urbanistico di piano, in cui la concertazione/negoziazione assuma forme certamente diverse da quelle della stigmatizzabile urbanistica contrattata.
La Città Conquistatrice – Rapporto Skeffington sulla Partecipazione (1969)