la Repubblica
Addio ad Antonio Monestiroli, l'architetto intellettuale della "scuola di Milano"
E' stato professore e preside della facoltà di Architettura civile del Politecnico, allievo di Aldo Rossi, esponente di spicco della stagione dell'architettura razionale degli anni Settanta
by FULVIO IRACEIl ritratto più autentico di Antonio Monestiroli - professore e preside (2000- 2008) della facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano - è quella sorta di aforisma autobiografico in cui si descriveva come: "lombardo, Longobardo, educato ad una cultura cristiana, edificante. Una cultura che si fonda sulla costruzione come valore positivo: la costruzione di sé, del mondo, della storia".
Esponente di spicco di quella stagione dell'"architettura razionale" che si era affermata negli anni '70 attorno al carisma del suo maestro - Aldo Rossi - Antonio aveva ribadito, con le sue opere di architettura e con i suoi testi di teoria, il principio di quella che amava chiamare "architettura della realtà" (secondo il titolo di uno dei suoi libri fondativi del 1979). Un'architettura in sapiente equilibrio tra "una realtà sperata e la storia dell'architettura", spiegava: un'architettura basata sulla continuità di una linea di pensiero che affondava le sue radici nella cultura dell'illuminismo, quello francese ovviamente ma forse, ancor di più, quello lombardo, da Pietro Verri al filosofo Antonio Banfi che negli anni della formazione aveva così profondamente intrecciato le voci del suo ragionare a quelle degli architetti, nel tramite di Ernesto N. Rogers. Da Rogers, Monestiroli aveva mutuato un concetto (e una vocazione) che impregnerà di sé tutta la cosiddetta "scuola di Milano" di cui in fondo lui si sentiva forse l'ultimo erede: l'architetto è un intellettuale prima ancora che un professionista. Ma il suo sapere non è avulso dal cantiere: anzi si fonda sull'unità di pensiero ed azione come forma suprema di un realismo che comprende la quotidianità della vita. Non un pensiero astratto, ma una corrispondenza tra le regole del suo mestiere e la vocazione collettiva dell'architettura che, paradossalmente, rinuncia alle fughe solitarie del formalismo fine a se stesso per divenire coscienza dell'utopia del suo tempo.
Negli anni in cui fu direttore del Dipartimento di Progettazione, fece affiggere sulla parete davanti alla porta d'ingresso una gigantesca riproduzione della Scuola di Atene di Raffaello: un incipit che valeva un programma e una scommessa, quella di trasformare la Facoltà in una Scuola, cioè in una comunità partecipe di obiettivi comuni, pur da punti di vista diversi.