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I soldi, i corpi e la scrittura

Da King Kong Theory alla Trilogia di Parigi, viaggio nel bestiario urbano di Virginie Despentes.

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Anni di militanza nel punk, una breve gavetta come operatrice nel reparto sviluppo veloce fotografie di un supermercato, poi l’idea di prostituirsi arrivata nel ‘91 davanti a un Minitel. Virginie Despentes è una di quelle autrici il cui vissuto sembra venire sempre prima della scrittura. E non (solo) perché l’industria culturale è abituata a trattare così le donne che scrivono, ma anche per il suo carattere. Le femministe la adorano, ma è un sentimento non corrisposto. Se le domandano che rapporto abbia con il movimento lei risponde “Nessuno. Non sono un’attivista, non sopporto la violenza delle discussioni, sono troppo impegnata a capire che farmene della mia angoscia”.

“Tutti gli strumenti di comunicazione moderni servono innanzitutto al commercio del sesso” scriveva nel suo libro più noto, il saggio memoir King Kong Théorie uscito in Francia nel 2006 e in Italia appena ripubblicato da Fandango in una nuova edizione. “I soldi sono l’indipendenza” continuava prima di citare Virginia Woolf “nel sesso a pagamento, quello che disturba la morale non è tanto che la donna non ne ricavi piacere, quanto che si allontani dal focolare e si guadagni i suoi soldi. La puttana è l’asfaltatrice, colei che si appropria della città”. Despentes racconta spesso quello che ha provato camminando per Parigi travestita da femmina dopo un’adolescenza passata a Lione a radersi i capelli e indossare maglie extralarge. Sapere di poter avere per una volta il mondo ai tuoi piedi dev’essere per forza un’esperienza entusiasmante di fronte a un reticolo di strade costruite da ingegneri in cravatta, dove alle ragazze è concesso tuttalpiù di fare shopping disperdendo guadagni minimi nei ritagli di tempo.

Ho mollato-e-ripreso così per un po’, poi sono diventata Virginie Despentes. La parte promozionale del mio lavoro di scrittrice mediatica mi ha sempre colpito per le sue analogie con l’atto di prostituirsi. […] la sensazione di non appartenersi del tutto, di vendere quello che è intimo, di esibire quello che è privato è esattamente la stessa.

Nel precariato digitale i confini tra le opzioni possibili sono più sottili di quello che la gente perbene è abituata a pensare. Ma a Despentes le ragazze “perbene” non interessano. Se scrive lo fa “dalla sponda” delle rotte, per le difettose, a nome di tutte le escluse. E lo fa con un’attenzione particolare alla seduzione e alla cattiveria. Le eroine delle sue storie hanno nomi da film pulp – Vodka Satana, la Iena. In mezzo ci sono sempre i soldi, e la città, con i suoi viali e le metropolitane, le sue leggi non scritte. “L’importante è non dimenticare che gli altri sottostanno alle stesse regole: sono i re del mondo, fino al prossimo giro di ruota” fa dire a un produttore televisivo all’inizio del suo ultimo lunghissimo romanzo, Vernon Subutex, uscito in Italia per Bompiani con il titolo Trilogia della città di Parigi. Niente a che vedere con l’assertività spiazzante e cristallina della nonfiction, ma in Francia è già una serie di Canal Plus – la storia di un venditore di dischi rovinato dall’avvento degli mp3, che costretto a chiudere il negozio e sotto sfratto si ritrova in poco tempo a spostarsi di divano in divano a casa di amici sopravvissuti alle dipendenze, ai fallimenti, eventualmente al successo.

Certo, la trilogia è anche questo, la vicenda di un uomo qualsiasi (un po’ più sexy della media) che finisce, come si dice in questi casi, sotto i ponti. Ma è nella moltiplicazione delle trame che la prosa senza pretese, non sempre coerente, sembra trovare la sua cifra. Al punto da concedersi appendici da romanzo d’ottocento – come quella ambientata a Francoforte, dove Aïcha, giovane musulmana praticante su cui si leggerebbe volentieri un libro a parte, si nasconde come ragazza alla pari e scopre di essere un’altra rispetto a quella che credeva di essere.

Nel parlare dell’incidente, i tratti del viso di Walid si erano induriti e Aïcha aveva voluto credere che il momento non fosse opportuno per dirgli che non doveva sedersi in cucina quando lei era da sola. Dieci volte ha avuto l’occasione di comportarsi in modo corretto. Dieci volte ha fatto la scelta sbagliata.

Trenta personaggi incastrati attorno a un mucchio di videocassette, il segreto di una donna che non c’è più e che riguarda tante, troppe persone. Se la scrittura si disperde in giri larghi, dialoghi troppo spesso in debito con la tv on demand, l’intreccio restituisce bene il senso di cosa sono diventate le nostre città. L’effetto è quello della vertigine umana, un ampio spettro di finestre che guardiamo accendersi e spegnersi attraverso i quartieri di Parigi. Di sottofondo, c’è sempre una canzone. Ne emerge un bestiario dei nostri tempi, ragazze coraggiose e maschi sull’orlo di una crisi di nervi.

Padri progressisti che si chiedono dove hanno sbagliato, figlie che scelgono l’integralismo per ribellarsi a un presente in cui non si riconoscono. Mogli non più sicure di aver scelto bene i mariti, ventenni alla ricerca di una sessualità mai binaria. E poi vecchi fascisti dal cuore tenero, giovani estremisti di periferia destinati a fare una brutta fine, tatuatrici pronte a tutto, ex dive del porno, parrucchiere transessuali, detective private specializzate nel linciaggio cibernetico, commessi di H&M, curatori d’arte, giornaliste rock. E un universo sotterraneo di senzatetto, poveracci finiti in malora o malandati dalla nascita, tutti – chi più, chi meno – affezionati alla bottiglia.

Si è fatta una piccola scorta, la tiene ben nascosta in un angolo che nessuno può vedere, così che sia difficile che qualcuno ci metta le mani sopra mentre lei non c’è. Basta con il vinello che le sfondava l’esofago, adesso la signora riempie la sua bottiglia Pepsi Max di whisky.

“L’idea di raccontare la vita di chi dorme in strada nasce a Barcellona durante la crisi, quando molte persone si sono trovate sul lastrico da un giorno all’altro partendo da una condizione accettabile” ha spiegato l’autrice. “Volevo iniziare da una serie di personaggi rintanati in casa a guardare il mondo da uno schermo connesso a internet, e gradualmente farli uscire fuori”. In effetti, è quello che succede a seguire Vernon: si parte da un divano, e senza neanche rendersene conto ci si ritrova seduti davanti alle porte scorrevoli di un supermarket accanto a una donnona allegra di nome Olga, stravolti su una panchina del parco Buttes-Chaumont in preda alle allucinazioni a contemplare la città di notte. Bisognerà sfiorare l’ascetismo per allontanarsi, raggiungere i sobborghi, oltrepassare le circonvallazioni e inoltrarsi nei boschi. Se si prende a misura l’immensità del cielo, la razza umana come specie tra le altre, quello d’acquisto è un potere minimo, sembra avvertirci Vernon.

Meglio scrollarsi di dosso ogni contratto, restare sotto un albero in un parco accanto a un vecchio materasso a spacciare playlist aspettando che qualcuno s’innamori di noi e ci porti da mangiare. L’atmosfera è da fumetto, tanto vale ballare tutti, abbandonarsi a conclusioni psichedeliche, a finali a dir poco eccedenti. “I parchi sono gli unici luoghi delle città in cui non si paga per entrare” fa notare Despentes, che nel romanzo si diverte a inscenare una versione ironica, fin troppo romantica, del vivere comune. Come darle torto, in città costa caro persino esistere, se non ti trovi un network prima o poi ci rimani sotto – oggi ti ripeti che resti, domani molli tutto e te ne vai per sempre.

Mariana non aveva voglia di andarsene da Parigi. Non aveva voglia di lasciare le sue amiche e i bar che amava frequentare. È preoccupata anche per i soldi – paga l’affitto subaffittando l’appartamento su Airbnb, una sua amica si occupa delle chiavi in cambio di una percentuale.

La mappa di Vernon è quella dei posti dove è permesso sostare gratis a tempo indeterminato o anche solo per cinque minuti – la linea 8 è buona per un “sonnellino”, per riscaldarsi ci si “fionda” all’Apple Store. È una mappa che fa il nodo alle traiettorie degli altri. Chi “ama Parigi, dalla Porte de la Chapelle a Montparnasse. Ne ama gli strati successivi, contraddittori, le intersezioni e i cambiamenti bruschi”, chi “comunque sia, la odia” e anche se “ci lavora da più di quindici anni. Non l’ha mai amata questa cazzo di città”. Lo stradario è multiforme, animato da sentimenti contrastanti ma comunque assoluti. “A volte bastano due vie per precipitare da un quartiere all’altro, altre volte sei costretto ad attraversare brevi zone senza identità” dice una dei personaggi, Gaëlle. “Tutte le combinazioni sono possibili, e anche lei rientra nel mosaico”, si ritrova a pensare.

Come nella Oxford Street di Virginia Woolf il puzzle non si ricompone mai. La Parigi delle banlieue, degli arrondissement, delle ragazze imbacuccate negli chador, degli iPod che passano di moda e le cuffiette che trasmettono di tutto, dal punk al rap, potrebbe assomigliare alla Londra di Zadie Smith in Denti Bianchi, a quella di Nick Hornby in Alta Fedeltà. Ma se salta in aria Charlie Hebdo, il Bataclan, se anche l’Europa diventa un posto piccolo, allora è solo una città tra le altre, divisa per quartieri-roccaforte, una planimetria di soglie tutte tese a definire chi è dentro e chi no, gente in piedi che cammina accanto, sopra, oltre la gente seduta o sdraiata a terra. La tassa da pagare sull’anonimato è il disprezzo, “si trasmette con la stessa facilità della rogna”, “l’aggressione è in agguato, nelle metropolitane nessuno sorride, non c’è un solo corpo che lasci capire di aver tempo da perdere”.

Più che una droga il rock è un anestetico, comprendere è affidato agli animali che non parlano – i cani soprattutto, compagni di sventura capaci di tradurre l’indicibile. In Parigi come questa non c’è spazio per la magia, il mondo è come lo vediamo quando usciamo per fare la spesa: terza persona presente, il copione di una sceneggiatura lunga mille pagine, dove più si guarda più si fatica a provare qualcosa. A patto che la penna non affondi nei corpi e in tutto quello che rappresentano – come accade quando due amiche decidono di commettere un crimine per fare giustizia, o nella tortura che non lascia scelta. “La cosa più strana dopo tutto quello che è successo” commenta Céleste, tra i personaggi della trilogia “è sempre la normalità delle cose”.

L’idea che per gli altri la vita sia andata avanti. Non c’è nessuna logica in questo. La ragione, il linguaggio, l’analisi – niente di tutto ciò serve a qualcosa. Continuiamo a raccontarci storie quando fingiamo che le cose abbiano la loro importanza, la loro stabilità, o che la vita poggi su basi solide.

A più di vent’anni dal debutto, quindici dalla svolta lesbica che ci tiene a definire felice e politica, Virginie Despentes ha ottenuto molto in termini di riconoscimento: diversi premi – nel 2010 il Renaudot ad Apocalypse bébé (in Italia pubblicato da Einaudi Stile Libero) – traduzioni, adattamenti per il cinema, il teatro, la televisione. Se i letterati la snobbano, lei se ne frega. La scrittura non è l’ignoto, è un mezzo di comunicazione di massa. “Ho iniziato a scrivere perché non costava niente” risponde oggi a chi le chiede come è cominciata.

Una bugia a cui verrebbe voglia di credere. Iniziare forse non costa niente, ma bisogna aver conosciuto il desiderio incendiario di restituire al mondo la propria versione dei fatti per essere disposte a continuare, spendere fino all’ultimo centesimo di sé. Despentes, che ha esordito nel 1993 con Baise-moi (in Italia Scopami) – fiction nata in seguito a uno stupro di gruppo subito a diciassette anni nella vita reale, in cui sono le donne a uccidere gli uomini e da cui è stato tratto anche un film dalla vicenda controversa – dopo nove romanzi deve saperlo benissimo. Ma è dotata di senso dell’umorismo e conserva cara l’attitudine a non farsi trovare dove ci si aspetta. D’altra parte esistono soddisfazioni impagabili, lo spiegava tredici anni fa: “è il concetto base del punk, non fare come ti dicono di fare”.

 

 

Le dichiarazioni di Virginie Despentes riportate in questo articolo si riferiscono agli interventi che ha tenuto al Festival di Internazionale a Ferrara il 5 e il 6 ottobre 2019