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Il capitale sociale che manca all’ex-Ilva

All’inizio degli anni Sessanta lo stato insedia un’acciaieria nel territorio comunale di Taranto, senza una zona di rispetto per la protezione dell’abitato.

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Per un piano industriale complesso e impegnativo quale quello necessario per rilanciare l’acciaieria di Taranto, il problema maggiore è il difetto della fiducia reciproca che nasce da un senso civico diffuso. Senza il quale qualsiasi paese è condannato a languire nell’arretratezza.

Mezzo secolo di disinteresse per il futuro

All’inizio degli anni Sessanta lo stato insedia un’acciaieria nel territorio comunale di Taranto, senza una zona di rispetto per la protezione dell’abitato. Negli anni successivi comune e regione – abdicando ai propri poteri di governo urbanistico – consentono uno sviluppo insensato degli insediamenti residenziali intorno allo stabilimento, ignorandone del tutto le emissioni inquinanti. Nel 1995 l’acciaieria viene ceduta a una famiglia di industriali, i quali per un verso fanno propria l’incuria per l’impatto ambientale della produzione che ha caratterizzato la gestione precedente, per altro verso considerano come normale costo di produzione la distribuzione di prebende e sovvenzioni a istituzioni pubbliche e a privati, ivi compresi i partiti e la diocesi, atte ad anestetizzare tutti quanti di fronte ai danni causati dallo stabilimento. E per quindici anni i destinatari di quelle regalie si lasciano volentieri anestetizzare.

Le radici profonde del dramma attuale del centro siderurgico pugliese vanno cercate nell’accordo tacito che per quasi mezzo secolo ha unito tutti nel disinteresse per il futuro.

Nel 2012 la magistratura manda in prigione, per disastro ambientale e altri reati connessi, i titolari dello stabilimento, che l’anno dopo viene commissariato. Da allora viene avviato un nuovo piano di riduzione drastica delle emissioni inquinanti, che incomincia pian piano ma tangibilmente a produrre risultati apprezzabili.