http://i.cdn-vita.it/blobs/variants/5/3/5/5/5355bb03-4c8a-4684-bbc0-7812b7084088_xl.jpg?_637106094965843289

Il capitalismo come religione

by

Nel suo ultimo saggio, "Il capitalismo e il sacro", edito da Vita e Pensiero, l'economista Luigino Bruni affronta con radicalità una questione a lungo sottovalutata: il capitalismo finanziario andrebbe letto come un fenomeno religioso rovesciato. Il capitalismo finanziario è una religione del debito, dell'iperconsumo, del sacrificio inutile e della dissipazione di valore

Scrive Marx, nel libro terzo del Capitale: «il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio essenzialmente protestante… È la fede che rende beati».

Una religione che non redime, ma indebita

Parliamo di capitalismo, che cosa c’entra la fede? Se il capitalismo si riducesse soltanto a un sistema di produzione e distribuzione di merci e servizi, sarebbe facile afferrarlo, comprenderne la logica, non solo gli effetti. Ma il capitalismo è molto di più: è fede, sistema di segni, religione, idolo e culto. È questa la tesi dell’ultimo libro di Luigino Bruni, Il capitalismo e il sacro, edito da Vita e Pensiero.

«Solo Dio e la finanza capitalistica», spiega Bruni, «hanno la pretesa di creare dal nulla». Ma la religione del capitalismo o, meglio, il capitalismo come religione è un tipo molto particolare di fede. Premoderna e al contempo postmoderna, questa religione non redime, ma incolpa. Non libera, ma indebita.

Nel 1921, Walter Benjamin scrisse un appunto dedicato proprio al capitalismo come religione: Kapitalismus als Religion. Un appunto, richiamato da Bruni, che capovolge la lettura weberiana del capitalismo come secolarizzazione.

Al contrario, nel fenomeno del capitalismo moderno Benjamin legge una mutazione di superficie e una continuità di fondo: «nel capitalismo va scorta una religione», questo l’incipit del frammento 74, scritto come si diceva nella seconda metà del ‘21, ma pubblicato per la prima volta solo nel 1985.

Se nel capitalismo va scorta una religione allora, prosegue Benjamin, «il capitalismo serve all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le religioni».

Il capitalismo non è letto, in questa prospettiva, come una «formazione condizionata dalla religione», ma come fenomeno religioso a sé, e in sé. Che cosa significa, allora, leggere il capitalismo come religione? In primo luogo rovesciare completamente la prospettiva sulle matrici dell’homo œconomicus. In secondo luogo - e Bruni lo ricorda con forza - che per comprendere alcuni fenomeni, sociali e economici, che toccano e sconvolgono le nostre società bisogna rivolgersi «alle loro radici e promesse religiose».

Il capitalismo, un culto

Torniamo a Benjamin, utile chiave per cogliere la profondità del ragionamento di Bruni. La struttura del capitalismo come religione si articola per il filosofo lungo tre assi.

Primo: il capitalismo è una religione cultuale.

Secondo: il culto capitalistico non conosce sosta, festa, pausa, sospensione.

Terzo: il capitalismo è un culto che incolpa e indebita (il sostantivo tedesco Schuld, ricordiamo, ha questa doppia accezione semantica: colpa e debito) e finisce per «implicare anche Dio stesso in questa colpa/debito (Schuld)».

Conseguenze? Benjamin le descrive così: «l’essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo implica perseveranza fino alla fine, fino all’ultimo indebitamento/colpevolizzazione di Dio. Fino al raggiungimento di una disperazione cosmica». Eppure, la coscienza «spaventosamente colpevole» prodotta dal capitalismo non cessa di farci sperare e, paradossalmente, ci e si indebita sempre più.

Nessuna espiazione è possibile, né dal culto, né dalla sua abiura finché siamo implicati in questa logica. Fin qui Benjamin.

http://i.cdn-vita.it/blobs/full/b/e/4/c/be4c6c3f-f0a2-46d1-a9ea-1044a6464651.jpg?_637106319071595530
Luigino Bruni
Il capitalismo e il sacro (Vita e Pensiero, 2019)

Bruni, però, va oltre. E aggiunge un elemento: l’idolatria. Lo fa in un’analisi della religione neo-manageriale, considerata la prima religione dell’epoca della globalizzazione. Il dio produttore diventa, qui, il dio consumatore. «I mercanti sono tornati a vendere le colombe nel tempio», scrive Bruni.

Il capitalismo distrugge la religione tradizionale, ma la religione neo-manageriale fa di più: edifica idoli nel momento stesso in cui li dà l'illusione di abbatterli. Libera, incatenando. Incatena, liberando. Consuma, ma cosa consuma? Non c'è più alcun valore d'uso, prevale il mero valore di scambio.

Il tempio dei mercanti

L’ideologia delle business school è il nuovo verbo, la crescita disfunzionale e gli aggregati speculativi predatori (high finance predatory formations) sono le sue nuove concezioni ideologiche. «Ogni idolatria è culto di solo consumo», osserva Bruni.

http://i.cdn-vita.it/blobs/variants/2/e/6/5/2e65590b-5bfe-428d-a5c4-d2efbb5bf62d_large.jpg?_636294018723720396
Luigino Bruni

Da qui, prosegue, «l’operazione sistematica in atto da qualche anno di denigrazione e disistima di tutto ciò che sa di fatica, sudore, sacrificio. Il consumo ci piace molto perché è solo piacere: nessuna fatica, nessun dolore». Non dobbiamo stupirci, allora, se i nuovi fronti del conflitto civile si stanno spostando dal novecentesco più lavoro per tutti, all’odierno più consumo per tutti.«Il totem non lavora», spiega ancora Luigino Bruni.

La riflessione biblica sull’idolatria permette di isolare un elemento esterno al sistema tutto interno delineato da Benjamin. Non Dio, ma Idolo è il dio che indebita/incolpa.

Il saggio di Benjamin, osserva Luigino Bruni, è stato a lungo trascurato, nonostante «contenga un’analisi ancora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione». Il capitalismo, in quest’ottica, è una risposta, falsa, a una domanda vera: una domanda di salvezza. Ma non se non c’è un fuori, senza trascendenza questa domanda non potrà essere soddisfatta.

L’idolo, se impone lavoro, impone un lavoro inutile, un lavoro senza valore. Un lavoro che “vale” solo se orienta i suoi “devoti” a un altro consumo: viviamo il tempo del sacrificio inutile.

Ma è proprio studiando questi passaggi che Bruni aiuta a cogliere la potenza della natura religioso-idolatrica del Finanzmarkt-Kapitalismus.

La fase industriale del capitalismo, ci ricorda Bruni, non va confusa con le precedenti, ancora orientate all’interno di un’economia della scarsità, dove al culto del mercato bastavano le merci. Ora, le merci non bastano più.

Il capitalismo degli spiriti è diventato un capitalismo senza spirito. Gli altari in rovina sono abitati da demoni.