1994: vince Berlusconi. Stava sorgendo la «Repubblica dell’antipolitica»

by

Da Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Torino, Einaudi, 2019, pp. 449-453

La campagna elettorale del 1994 presentò elementi di novità rispetto al passato per l’accesa personalizzazione secondo modelli americani e un evidente squilibrio di mezzi in favore di Berlusconi che schierò a sostegno della propria candidatura il suo impero mediatico e alcuni popolarissimi personaggi televisivi, fra cui Mike Bongiorno, Raimondo Vianello, il mezzobusto Emilio Fede e l’idolo dei teenager Ambra Angiolini.

La vittoria arrise al centrodestra con il 42,8 per cento dei voti, contro il 34,3 per cento dall’Alleanza dei progressisti e il 15,7 per cento dai centristi del Patto per l’Italia. 

L’opinione pubblica lesse e amplificò la vittoria come un trionfo personale e schiacciante di Berlusconi, anche se il computo dei seggi al Senato non diede una maggioranza autonoma allo schieramento di centrodestra, che ottenne una risicata fiducia soltanto grazie al trasformismo di quattro senatori eletti nelle liste centriste del Patto per l’Italia, tra cui Giulio Tremonti (il quale in cambio divenne ministro delle Finanze) e l’imprenditore cinematografico Vittorio Cecchi Gori (socio in affari di Berlusconi), e al sostegno di tre senatori a vita (l’industriale Gianni Agnelli e gli ex presidenti della Repubblica Cossiga e Leone).

In verità il nuovo quadro politico consegnò una realtà più dinamica e frastagliata di quanto poteva sembrare a uno sguardo superficiale o propagandistico. Con la nascita di Forza Italia, Berlusconi aveva certamente compiuto un’impresa, raccogliendo i frutti di un paziente e raffinato lavoro di costruzione di un elettorato potenziale, plasmato, sul piano antropologico e sociale, per quasi un quindicennio grazie al monopolio conseguito nella televisione commerciale. 

Ciò nondimeno, l’assetto sostanzialmente e tradizionalmente bipolare del sistema politico italiano uscì ribadito e rafforzato: ai lati opposti degli schieramenti emersero due partiti maggiori pressoché equivalenti per numero di voti, Forza Italia al 21 per cento e il Pds al 20,3 per cento, ma Berlusconi prevalse grazie a una maggiore capacità di allargare la sua coalizione verso destra (Alleanza nazionale conseguì un eccellente 13,4 per cento, raddoppiando i suoi voti), dunque interpretando al meglio la novità imposta dalla nuova legge elettorale. Il cartello progressista imperniato sul Pds, invece, non seppe estendere il proprio consenso verso il centro, tanto che i cattolici democratici del Ppi si presentarono separati – una scelta dal notevole rilievo politico – in quanto rese inevitabile la vittoria di Berlusconi e dello schieramento di centrodestra.

Il 20 gennaio 1994, nei giorni della discesa in campo di Berlusconi, una scrittrice semi-esordiente, Susanna Tamaro, pubblicò il romanzo Va’ dove ti porta il cuore che, nel giro di quell’anno, grazie al passa parola tra i lettori, vendette un milione di copie, destinate a diventare otto milioni nel corso del tempo, trasformando quel libro in uno dei maggiori successi letterari del secolo. Ma dove stava andando il cuore degli italiani che, in quell’anno, sembravano rapiti dal filo epistolare dipanato da «nonna Olga» tra le generazioni, non meno di quanto erano apparsi disponibili ad accogliere la seduttiva parola di Berlusconi? 

La giornalista Lucia Annunziata colse il punto quando scrisse sul «Corriere della sera»: «il 1994 è stato dominato da due stelle: Silvio Berlusconi nella politica e Susanna Tamaro nella cultura. Personaggi dissimili – il primo così chiaramente definito dalle acquisizioni di successo, abbronzatura e corte di alleati, la seconda così chiaramente fuori sistema con la sua zazzera mal tagliata e le sue frequentazioni alternative, femministe, emarginati e molti animali. Eppure non hanno, per certi versi, una voce e persino un destino comune? Silvio Berlusconi e Susanna Tamaro non parlano forse entrambi a quella vasta area di confusione emotiva dentro cui è approdata la Grande Ideologia?». 

La fine della «Grande Ideologia» che, nonostante l’apprezzabile resistenza vetero novecentesca di Bobbio, proprio nel 1994 autore di un best seller politologico dal titolo Destra e sinistra, in grado di vendere trecentomila copie in quell’anno, stava smettendo di dividere il mondo soltanto tra questi due sistemi ideologici, valoriali e politici. Ciò era avvenuto nel corso dei due secoli esatti che correvano tra il 1789 e il 1989, ma ora quell’universo tornava a separarsi, come ai tempi dell’antico regime, anche tra l’alto e il basso, il dentro e il fuori, gli inclusi e gli esclusi, i ricchi e i poveri. Per questa ragione la scrittrice era rifiutata dalla critica letteraria che non le perdonava il successo di massa, così come l’imprenditore era tenuto fuori dal «salotto buono» dell’alta finanza italiana che lo vedeva come un parvenu arricchito. Entrambi, però, anche in virtù di questa ragione, risultavano straordinariamente popolari e vincenti, resi forti dall’apparire gli sfidanti, dei magnifici outsider, di un sistema culturale e politico di cui in realtà erano parte integrante. 

Il cuore degli italiani stava andando verso la disillusione nei riguardi della politica, il rifiuto dei partiti con le loro stanche liturgie, la crescente sfiducia nelle istituzioni rappresentative, l’irrilevanza dei corpi intermedi, l’esaltazione del cambiamento per il cambiamento e la spasmodica attesa di un uomo sempre nuovo e risolutore, cavaliere o capitano di ventura che fosse, con tutta l’energia di un finto anti-sistema.Si trattava di una serie di valori e di atteggiamenti, che si potrebbero genericamente definire anti-politici e/o anti-partito, i quali, dopo la crisi degli anni Settanta, avevano iniziato a trasmigrare dalla destra verso la sinistra, a seguito del fallimento delle speranze rivoluzionarie di una generazione super impegnata sul terreno della militanza e iperpoliticizzata su quello dell’ideologia.

Intendiamoci: non era la scoperta di una cosa nuova, bensì lo scongelamento di posture e comportamenti antichi, tipici di ampie fasce popolari e di una parte predominante della piccola e media borghesia nazionale, che la rottura resistenziale e il clima della Guerra fredda avevano ibernato, ma ora riaffioravano come fossili ancora vitali. Il cuore degli italiani tornava a pulsare per una rinnovata democrazia del personaggio, l’ultimo stadio post-novecentesco del processo di personalizzazione della politica, l’esito estremo del percorso di lunga durata della formazione dell’individualismo moderno. Un itinerario, facilitato dalla pervasività dei nuovi strumenti di comunicazione politica di massa (dalla radio alla televisione e poi da internet), che imponevano un rapporto diretto, e sempre più verticalizzato, tra la gente e il suo capo, che fosse «unto del signore», come si disse a destra, o dal «popolo delle primarie» come si sarebbe sostenuto, poco più tardi, a sinistra. 

Negli stessi anni, tali fenomeni stavano interessando l’evoluzione delle forme di organizzazione della politica e del suo rapporto con gli elettori nelle principali democrazie occidentali, ma in Italia si presentarono con particolare radicalità come se fossero una reazione alla camicia di forza della precedente stagione e per una tradizionale disponibilità delle classi dirigenti ad aderirvi senza colpo ferire. Non era, infatti, la prima volta nella storia d’Italia che il ritorno della restaurazione assumeva il volto seducente del gesto ribelle, della rottura rivoluzionaria, della mobilitazione giustizialista e indignata di una società civile schierata contro il «Palazzo» della «cattiva politica», in nome di quella «buona e sempre dal basso», tra improvvisi voltafaccia, graduali riposizionamenti e inopinate abiure, in un panorama abitato da felpati gattopardi e velocissimi camaleonti. 

Secondo lo studioso Massimo Luigi Salvadori in questa fase si registrò il passaggio da un sistema bloccato, che non aveva potuto garantire l’alternanza delle forze di governo in ragione del vincolo esterno, al blocco del sistema, da cui sarebbe scaturito il collasso della «Repubblica dei partiti», nel quale «si rispecchiavano nodi irrisolti dell’intera vicenda storica del nostro Stato. […] A cedere non era unicamente il terzo regime della storia d’Italia – dopo quello liberale e fascista – ma un intero modo di essere dello Stato-nazione, così come costruito a partire dal Risorgimento». In questo passaggio, secondo lo storico Franco De Felice si sarebbe misurata la crisi, forse definitiva, dello «Stato-nazione» e avrebbe preso avvio una «transizione infinita» che, a causa della sua irrisolutezza, ha progressivamente assunto le forme e le dimensioni di una vera e propria deriva storica dell’identità repubblicana.

Ancora una volta una canzone del 1991 del cantautore Battiato, intitolata Povera patria, riuscì a cogliere in anticipo lo spirito dei tempi. L’Italia vi era rappresentata «schiacciata dagli abusi del potere/ di gente infame che non sa cos’è il pudore», abitata da «governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!», ma «la primavera tarda ad arrivare [...] non cambierà, non cambierà,/ no cambierà, forse cambierà». Dalla canzone Viva l’Italia del 1979 di De Gregori, in cui era orgogliosamente rivendicata, con esplicito riferimento alla strage di piazza Fontana, «l’Italia del 12/ dicembre,/ l’Italia con le bandiere, l’Italia/ nuda come sempre,/ l’Italia con gli occhi aperti nella/ notte triste, /viva l’Italia, l’Italia che resiste», erano trascorsi soltanto dodici anni, ma quelle parole sembrava provenire da un’altra epoca. La percezione di questa sfasatura temporale derivava dal fatto che la canzone di De Gregori illuminava il passato della nazione mentre quella di Battiato il suo futuro: come se in quell’arco di tempo sospeso e improvvisamente dilatato, l’Italia fosse stata presa in un vortice, sollevata da un turbine e poi precipitata giù. 

Tramontata la «Repubblica dei partiti» (1945-1993) sotto i colpi secchi della storia, stava sorgendo la «Repubblica dell’antipolitica», che avrebbe accompagnato la vicenda italiana per i venticinque anni successivi e oltre, giungendo a illuminare, con i suoi chiaroscuri, la tremula e incerta ombra del tempo presente, quello della cronaca.