Greta Thunberg fa bene a registrare il suo nome e quello di FridaysForFuture

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La giovane attivista vuole difendersi da impostori e approfittatori: mossa sacrosanta e anzi tardiva. E annuncia anche una fondazione. Si apre la partita della trasparenza ma è giusto bloccare chi vuole speculare su nome, volto e parole

Altro che speculazione, come vanno urlando i soliti ignobili. C’è al contrario da domandarsi come mai non ci abbiano pensato prima, Greta Thunberg e la sua famiglia. Con un post su Instagram di mercoledì scorso l’attivista svedese ha spiegato di voler registrare il marchio del proprio nome e di quello del movimento ambientalista sorto dall’estate del 2018 sull’onda dei suoi “scioperi scolastici”: Fridays for Future. Un’onda che ha colorato di verde il pianeta mobilitando milioni di persone, specialmente ragazze e ragazzi, in tanti venerdì di protesta e proposta per un’azione immediata che contrasti il cambiamento climatico.

Le ragioni sono chiare, altro che “marketing” come qualche titolaccio sparato nel mucchio lascia pensare: “Impostori, marchi registrati, interessi commerciali, diritti e fondazioni – spiega nella didascalia del post – primo: sfortunatamente ci sono persone che cercano di spacciarsi per me o per miei rappresentanti in modo da entrare in contatto con politici, media, artisti, celebrità e così via. Per favore fate attenzione e siate estremamente sospettosi se venite contattati da qualcuno che dice di rappresentarmi”. Non solo: “Il mio nome e il movimento #FridaysForFuture sono usati costantemente per fini commerciali senza alcun consenso. Accade per esempio nel marketing, nella vendita di prodotti e con persone che raccolgono fondi nel nostro nome – aggiunge Thunberg – ecco perché ho depositato la richiesta che il mio nome, Fridays for Future, Skolstrejk för klimatet e altri siano riconosciuti come marchi registrati”. Apriti cielo.

Non servirà a far soldi ma a “proteggere il movimento e le sue attività” e ovviamente a intraprendere le azioni legali adeguate contro gli sciacalli del caso. Se non sei detentore di un marchio hai ovviamente più difficoltà a far valere le tue ragioni, il punto di partenza è tutto lì. “Vi assicuro che non abbiamo alcun interesse in questo settore – scrive l’attivista – ma sfortunatamente dobbiamo farlo”. Insomma, il movimento appartiene a tutti quelli che hanno partecipato ma non dev’essere usato per scopi commerciali o personali. Le parole sembrano molto chiare: ovviamente questi impegni andranno verificati nel tempo, ma al momento non c’è nulla da dire. Se non, come detto, domandarsi come mai non ci si sia arrivati prima.

Il terzo fronte riguarda una fondazione, che in realtà già esiste. E forse questo è il punto più controverso, nel senso che a quanto sembra non se ne era mai saputo nulla. Si tratta di una nonprofit, spiega Thunberg, e anche in questo caso “non ci sono interessi” nel suo lavoro. Serve solo a “gestire i fondi dei libri, delle donazioni, dei premi in modo del tutto trasparente”. Per esempio per pagare le giuste tasse prima di destinare quei soldi in beneficienza o per specifici progetti ecologici, per il clima e la sostenibilità sociale oltre che per la salute mentale. Anche in questo caso, la trasparenza andrà dimostrata, come in ogni caso. Thunberg è ormai un simbolo potentissimo, speriamo che lei, i suoi genitori e chi le sta intorno non cada nella tentazione dell’avidità.

Ovviamente i dietrologismi si sprecano: “Chi c’è dietro Greta?” si chiede il solito quotidiano arruffapopoli. Un altro spiega che Greta “passa all’incasso e lancia il suo marchio”, come se domani dovessimo trovare le Barbie-Greta o i gadget col suo nome. Che, per inciso, già si trovano in abbondanza e – quelli sì – rappresentano pura speculazione commerciale di immagine e missione della 17enne scandinava.

Basta farsi un giro su Amazon, dove si trovano oggetti di ogni tipo con le sue frasi e il suo volto: dalle tazze con il perentorio “How dare you?” pronunciato all’Onu lo scorso autunno ad altre con le più diverse foto e illustrazioni che la raffigurano per esempio col cartello in mano passando per borracce per l’acqua, e, saltando su altri siti di ecommerce come Etsy, t-shirt, cappellini, portachiavi con le sue trecce, adesivi, candele, quadretti con le frasi, spille, shopper, felpe, cartoline. Lo scorso Natale, in particolare, è stato segnato da un’invasione di paccottiglia, dagli gnomi da giardino alle bambole fino ai deodoranti per auto. Come aveva provato il Guardian, dei tanti prodotti individuati in rete solo uno prometteva di devolvere il 10% a una ong, senza ovviamente alcuna garanzia. Tutto questo senza poter essere a conoscenza delle probabili e numerose frodi in suo nome intentate nel corso del tempo.

Misurarsi con le necessità e i rischi della propria potenza comunicativa non è un male, è un bene. Adesso si apre un fronte essenziale, che è quello della trasparenza. Ma se ne chiude, almeno in parte, un altro: il Far West sulle spalle di un’attivista su cui in troppi hanno già mangiato.